Cop28, accordo in salita: le cinque cose da sapere nei giorni finali di negoziato

La Cop28 di Dubai dovrebbe finire ufficialmente martedì. È possibile, però, che i negoziati vadano all’extra-time e il documento finale venga approvato con uno, due o tre giorni di ritardo. Negli ultimi anni i giorni finali delle Conferenze sul clima si sono sempre allungate di almeno un giorno.

I lavori sono entrati in una fase molto tecnica: si cercano compromessi su ogni termine, ogni riferimento, ogni inclusione e omissione nel documento finale. Il testo deve trovare l’accordo di tutti, quindi è piuttosto complicato accontentare ogni Stato.

Una dovuta precisazione: nei giorni di Cop ci sembra che le decisioni della conferenza siano le più importanti della storia. Vero, ma anche falso: nel senso che poi sta agli Stati rispettare gli accordi, che sono vincolanti solo fin tanto che qualcuno ci crede. A Dubai, così come nelle precedenti 27 edizioni, si crea un po’ l’effetto gita: “Mi raccomando non perdiamoci di vista” e poi tutti tornano a casa e si perde la magia. Il vero risultato delle Cop però si misura nello “spirito del tempo”, ovvero nella capacità delle due settimane di negoziati di influire sul pensiero, la cultura e la politica globale nei mesi successivi. Si procede a piccoli passi o grandi balzi. Parigi 2015 con i suoi Accordi fu un salto quantico, Cop27 dell’anno scorso gettò minime ma decisive basi per discutere di giustizia climatica e fondi per i Paesi vulnerabili. Quest’anno c’è effettivamente sul tavolo qualcosa, vediamo cosa resta quando finisce il negoziato.

Ecco i cinque temi più importanti della settimana appena finita e dei prossimi giorni.

1. FONTI FOSSILI: eliminazione graduale o nulla di fatto?

È il grande enorme tema dell’anno (del secolo!): Che dobbiamo farcene di petrolio, gas e carbone? Nella bozza del documento finale ci sono ancora tutti i finali aperti, almeno quattro. Le frasi da tenere d’occhio sono quelle dove compare l’espressione phase out, eliminazione graduale.

La versione più pulita e robusta è quella dell’eliminazione graduale secondo tutte le raccomandazioni possibili. Ovvero: “Phasing out of fossil fuels in line with best available science, the IPCC’s 1.5 pathways and the principles and provisions of the Paris Agreement”. Eliminazione in linea con gli studi scientifici, il percorso dell’Ipcc per limitare il surriscaldamento a +1,5°C e quanto deciso con l’Accordo di Parigi.

Ci sono poi versioni intermedie più diluite, ma c’è anche la quarta via, dove il phase out neanche compare nel documento. Sarebbe una sconfitta, ma ricordiamoci che si “gioca” fuori casa. Non solo perché la Cop è ospitata dagli Emirati che vivono di petrolio, ma anche perché quest’anno i lobbisti delle fonti fossili sono quasi 2500 (se fossero una delegazione, sarebbero la terza per grandezza), e perché ieri sera l’Opec, l’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio ha invitato tutti i suoi membri a respingere ogni accordo dove sia previsto il phase out.

2. RINNOVABILI: la transizione energetica prende velocità

Quello che mette tutti d’accordo alla Cop emiratina è l’energia rinnovabile. Gli iper-ambientalisti sanno che deve crescere veloce, i Paesi inquinatori si tengono buoni solare ed eoliche perché puntano a un mix energetico globale dove rinnovabili e fossili vanno a braccetto. Più di cento Paesi si sono accordati per triplicare la produzione entro il 2030. L’obiettivo potrebbe finire anche nel testo finale, anche se c’è chi vuole che l’obiettivo sia unito al phase out del fossile.

Nel frattempo è uscito un report di Bloomberg, il Climatescope, che mostra come effettivamente una spinta rinnovabile ci sia nel mondo. Se sommiamo tutta la produzione elettrica globale a zero emissioni — solare, eolico, geotermico, idroelettrico, ma anche nucleare — arriviamo al 46% del totale.

3. AL JABER. La scienza e le caverne secondo il capo dei negoziati

È la Cop del Sultano Al Jaber. Nel bene e nel male. Ha un approccio molto aziendale ai negoziati, cerca risultati concreti, stringe tempi e tesse trame. Ma a volte, per presunzione o fretta, se ne esce con delle figuracce cosmiche.

Domenica scorsa è uscito un audio di Al Jaber dove dice: “Non c’è nessuna scienza che giustifichi il phase-out delle fonti fossili” (FALSO). E poi “se eliminiamo il petrolio torniamo nell’era delle caverne”. Ha pronunciato queste frasi durante una conferenza online, rispondendo a un’ex diplomatica americana. Era stizzito e nervoso, così ha dovuto passare i primi giorni della settimana a spiegare che non era esattamente quello che voleva dire.

(Pochi giorni prima la nostra premier Meloni aveva detto “Voglio una transizione ecologica, non ideologica”. A proposito di Italia: siamo stati “bocciati” dal report Legambiente-Germanwatch, che valuta gli impegni climatici dei Paesi. Nella loro classifica siamo scesi al 44° posto.)

4. IL TESTO FINALE: Quattro pilastri in 27 pagine

Ora la bozza del testo finale è lunga 27 pagine, piena di note anche piuttosto ingovernabili. Ogni definizione, aggettivo, avverbio cambia modalità, tempi e intensità delle aazioni.

Nel testo possiamo trovare almeno quattro pilastri.

• Mitigazione, che passa per cosa facciamo delle fonti fossili.

• Adattamento, con più risorse economiche e con la possibile richiesta all’Ipcc di studiarlo in un report ad hoc (l’Ipcc è l’organo Onu che si occupa della scienza del cambiamenti climatico)

• Soldi, ovvero finanza verde da accelerare. Nuovi investimenti per cooperare con i Paesi in via di sviluppo (affinché trovino strumenti green per alimentare la loro crescita) e fondi per aiutare i Paesi già messi alle corde dal climate change

• Pagelle, ovvero il Global stocktake, che è il bilancio di quanto fatto fin qui, gli impegni presi, le promesse mantenute, le cose che mancano. Non tutti i Paesi sono felicissimi di darsi le pagelle, anche perché i voti sono piuttosto bassi.

Per chi vuole sapere i dettagli della bozza: Jacopo Bencini, capo delegazione dell’Italian Climate Network alla Cop, ha analizzato il testo punto per punto.

5. CATTURA E STOCCAGGIO, il ruolo della tecnologia tra incertezza e fantasia

Quest’anno si parla tantissimo anche delle tecnologie CCS, carbon capture and storage: cattura e stoccaggio dell’anidride carbonica. Sono strumenti per assorbire la CO₂ in eccesso direttamente dall’aria oppure prima che esca dagli impianti di combustione. Viene poi “pompata” sottoterra così che rimanga lì intrappolata.

Secondo i tecno-ottimisti si tratta della bacchetta magica che salverà il mondo; secondo i pessimisti è una distrazione, per i realisti serve, ma sarà marginale. L’agenzia internazionale per l’energia, tra i tecno-realisti, spiega che sì certo ci sarà bisogno di loro visto che inquiniamo senza sosta, ma credere che ci evitino il percorso di decarbonizzazione è «pura fantasia» (parole esatte di Fatih Birol a capo dell’Agenzia).

I Paesi ricchi di petrolio puntano sulla CCS, così come in parte fanno gli Stati Uniti (perché sanno che arrivare primi nella corsa tecnologica genera vantaggi competitivi a livello geopolitico). Un obiettivo sul tavolo a Dubai è quello di raggiungere quota 1,2 miliardi di tonnellate assorbite all’anno entro il 2030, un valore 25 volte superiore rispetto a quello attuale (45 milioni di tonnellate). A oggi emettiamo circa 35-38 miliardi di tonnellate all’anno di CO₂.

Ma secondo un nuovo rapporto dell’Università di Oxford, una forte dipendenza dalla CCS per raggiungere gli obiettivi di zero emissioni intorno al 2050 sarebbe «dannosa dal punto di vista economico», con un costo superiore di almeno 30 mila miliardi di dollari rispetto a un percorso basato sulle energie rinnovabili. Per comprendere meglio l’enormità, la cifra di 30 mila miliardi di dollari è circa il doppio di quanto costerebbe la decarbonizzazione della Cina secondo le stime della Banca Mondiale.