Per fermare i negazionisti ci serve l’ideologia verde

Ogni volta che un politico, un imprenditore o un qualsiasi opinionista si scaglia contro la transizione energetica, il cuore verde di un ambientalista si spezza. Vorrebbe morire, solo per avere l’occasione di rivoltarsi nella tomba. Ieri il presidente della Cop28 di Dubai, Sultan Al Jaber, ha finalmente scoperto le sue carte, rivelando la sua visione del mondo: «Senza petrolio torniamo nelle caverne» e «eliminare i combustibili fossili per evitare l’emergenza climatica non ha nessuna base scientifica».

È palesemente falso – c’era d’aspettarselo da chi comanda i negoziati climatici per queste due settimane ma il resto dell’anno guida la compagnia petrolifera degli Emirati, la Adnoc. È incredibilmente falso – basta leggere l’ultimo rapporto dell’Ipcc, l’organo dell’Onu che si occupa di clima e basa i suoi studi sul lavoro di 234 scienziati e 14.000 paper. Sabato ci aveva provato anche la nostra premier Meloni, sempre a Dubai: «Serve una transizione ecologica non ideologica». Un processo di decarbonizzazione «libero da radicalismo». C’è una sola risposta valida: se si chiama transizione – e non salto quantico, e non rivoluzione rapida, e non sconvolgimento totale ma appunto transizione – per definizione è graduale. Non c’è nessuno là fuori che si sogna di staccare la caldaia di una famiglia e lasciarla al freddo solo perché è alimentata a gas o chiedere il licenziamento di un operaio che lavora su una piattaforma petrolifera. È proprio per questo che si prendono impegni a lungo tempo. Tanto che l’obiettivo meloniano di una transizione giusta e condivisa, che «non comprometta l’economia e gli equilibri sociali», è lo stesso identico obiettivo delle associazioni ambientaliste, dell’Onu, dell’Agenzia internazionale per l’energia e persino del Papa. Solo che chi rema contro usa le stesse parole ma con accezione negativa.

Mi permetto di fare notare che mai nella storia dell’umanità – e dico mai! – così tante persone di estrazioni sociali, poteri e geografie diverse hanno detto la stessa cosa riguardo al nostro rapporto con il clima: per salvare la specie umana dobbiamo cambiare il meccanismo con cui alimentiamo la nostra crescita. E per farlo c’è un solo modo, ovvero eliminando dall’equazione le fonti fossili, carbone gas e petrolio. Non c’è alternativa, non c’è bacchetta magica né tecnologica. Non ancora e non abbiamo tempo per attendere. STOP. Chi dice il contrario lo fa per uno di questi due motivi: o perché non ha preso in mano il sussidiario del cambiamento climatico, e ignora i principi tecnico-scientifici dell’effetto serra causato dalla CO₂; oppure perché difende gli interessi di pochi. Interessi politici (è facile prendersela con il cambiamento per chi difende la conservazione), interessi economici (perché le aziende petrolifere sono tra le più ricche al mondo) e interessi ideologici (perché chiudersi a riccio contro vaccini, clima e tutto il resto è un bel sollievo alla complessità).

Ma attenzione a pensare che sia solo una questione di negazionismo, anzi. La nuova strategia anti-ambientalista è la procrastinazione. Al Jaber temporeggia, ribalta le responsabilità. Meloni crea divisioni inesistenti diluendo così il dibattito. E infatti anche a Dubai ha colto l’occasione per difendere gli interessi del suo Piano Mattei.

Potremmo diventare il Paese d’Europa con più rinnovabili e invece siamo condannati a tenerci il gas. Ce ne pentiremo un giorno, ve lo assicuro. Non esiste un futuro dove le fonti fossili convivano con le rinnovabili, dove il nero si mescoli al verde. Il vero costo è rimanere fermi. Ecco perché dovremmo essere tutti ambientalisti radicali, convinti e persino scatenati. Tutti. Ovunque. Subito. Contro il logorio degli inattivisti climatici, viva l’ideologia verde.