Influencer europei bocciati in trasparenza: (quasi) tutti fanno pubblicità, lo ammette solo uno su 5 - I numeri
In aggiunta, molti promuovono addirittura «attività non salutari o pericolose». Lo ha rilevato un'indagine della Commissione Ue. I dati

Si fa ma non si dice. La beneficenza? No, la pubblicità. È quanto emerge da un'indagine della Commissione europea sull'attività degli influencer del nostro continente i cui risultati sono stati resi noti nel giorno di San Valentino. Se infatti da un lato la rilevazione ha stimato che la quasi totalità dei creator del settore (il 97%, per l'esattezza) pubblica contenuti frutto di accordi commerciali, solo uno su cinque è solito indicare ai propri follower i post che veicolano un messaggio pubblicitario.
Multe in arrivo?
Effettivamente la pratica non stupisce, essendo tali professionisti del web «spontanei per professione» (come li ha efficacemente definiti domenica sul Corriere Beppe Severgnini). Il fatto è che operare in maniera così opaca costituisce una violazione delle norme comunitarie in materia, al punto che ben 358 dei 576 imprenditori digitali oggetto dell'analisi saranno contattati dalle rispettive autorità nazionali per ulteriori accertamenti giuridici: probabile il fioccare di numerose multe. In aggiunta si è scoperto che 119 componenti del campione promuovono addirittura «attività non salutari o pericolose come junk food, alcolici, trattamenti medici o estetici, gioco d’azzardo o servizi finanziari come il trading di criptovalute».
Cosa dicono i numeri
Entrando più nel dettaglio delle cifre del report, sotto la cui lente di ingrandimento sono finiti anche 82 e 301 «pezzi grossi» che contano rispettivamente oltre un milione e oltre 100 mila follower sulle varie piattaforme, solo il 36% degli influencer verificati presi in esame è risultato formalmente registrato come commerciante a livello nazionale. Inoltre il 30% non fornisce mai alcun dettaglio aziendale sui propri post (come indirizzo email, nome della società, indirizzo postale o numero di registrazione), mentre il 38% non utilizza le etichette appositamente pensate per i contenuti sponsorizzati (come la levetta «partnership a pagamento» su Instagram). In compenso, vengono impiegate altre diciture come «collaborazione» (16%), «partnership» (15%) o generici ringraziamenti ai marchi coinvolti (11%).
Richiamo alla trasparenza
Evidente come a fare le spese di una simile mancanza di chiarezza siano i singoli utenti, di fatto impossibilitati a distinguere la pubblicità dalle informazioni spontanee e senza scopo di lucro (il cosiddetto «pandoro-gate» che ha riguardato Chiara Ferragni ne è una lampante dimostrazione). Non a caso l'obiettivo dell'indagine era proprio «valutare i problemi che i consumatori si trovano ad affrontare nei mercati digitali e stabilire se le norme Ue oggi in vigore siano sufficienti a garantire un livello elevato di protezione dei consumatori o se necessitino di modifiche mirate per affrontare meglio questi problemi». Novità legislative in vista, dunque? Si vedrà. Nel frattempo il commissario per la Giustizia Didier Reynders ha dichiarato in merito agli esiti del monitoraggio: «Con lo sviluppo dei social media, l'attività degli influencer è diventato un vero e proprio business. Oggi, la maggior parte di loro guadagna grazie ai propri post. Tuttavia, i nostri risultati mostrano che non sempre ciò viene segnalato ai follower – molti dei quali minorenni – su cui esercitano un grande potere. Li invito a essere molto più trasparenti nei confronti del loro pubblico».