Nelle postazioni ucraine«Roma» e«Milano», dove i cannoni italiani proteggono Kharkiv

diLorenzo Cremonesi 

Gli Oto Melara M56 sono arrivati in Ucraina a dicembre 

Nelle postazioni ucraine «Roma» e «Milano», dove i cannoni italiani proteggono Kharkiv 

Foto Lorenzo Cremonesi

DAL NOSTRO INVIATO 
LYPTSI - I due cannoni stanno a poche centinaia di metri l’uno dall’altro in buche scavate nel folto della vegetazione coperte da teli mimetici e rami. Il camuffamento ricopre anche le canne puntate verso il cielo. I soldati della Tredicesima brigata di fanteria meccanizzata hanno battezzato le due postazioni «Roma» e «Milano». «In onore del governo italiano, che ci ha fatto avere i cannoni in tempo utile per fermare l’offensiva russa verso Kharkiv», dice il comandante, un 36enne originario di Dnipro, che rivela solo il suo nome di guerra, «Shtick»: significa baionetta sia in ucraino che in russo.

Ne parliamo anche perché non è facile trovare operative sui campi di battaglia le armi donate dall’Italia all’Ucraina per contrastare l’aggressione russa iniziata nel febbraio 2022. I due cannoni sono pezzi della Oto Melara M56, che sparano proiettili Nato da 105 millimetri, sono stati prodotti nel 1985 ma mai utilizzati prima di adesso. «I cannoni sono arrivati a dicembre. Uno aveva il sistema di puntamento rotto. Lo hanno riparato i meccanici a Kharkiv, quindi è stato portato qui nel settore di Lyptsi», continua Shtick. Un anno fa nell’area di Chasiv Yar, poche decine di chilometri più a sud, avevamo incontrato una compagnia di mortaisti palesemente scontenti dei mortai donati dall’Italia. Li consideravano armi inadeguate, lente, obsolete, prone all’inceppamento. Non così oggi gli uomini della Tredicesima, che anzi lodano la leggerezza e manovrabilità degli Oto Melara. «Sono cannoni agili, leggeri, migliori dei corrispettivi modelli americani e degli altri Paesi Nato. E ovviamente infinitamente più efficienti dei D-20 e D-30 della vecchia artiglieria sovietica , che avevamo in dotazione prima. Questi li possiamo smontare molto facilmente e ciò aiuta anche l’interramento tra gli alberi. Nei momenti più difficili abbiamo sparato anche 6 colpi al minuto e il fusto non si è mai surriscaldato», aggiunge.

Arriviamo alla postazione «Roma» attraversando in jeep ampie distese di campi non più coltivati. Guardiamo continuamente in aria, impera il terrore dei droni: giungono improvvisi alti nel cielo, spesso non senti neppure il loro ronzio, che rimane coperto dal rumore del tuo motore, e se te ne accorgi è già troppo tardi, il drone ha lanciato la sua granata che adesso esploderà al suolo irrorando l’aria di schegge mortali. Non c’è villaggio che non sia devastato. Un paio di mezzi bruciati e tempestati di buchi a fianco del tratturo che dalle retrovie raggiunge le loro trincee testimoniano la veridicità delle loro parole.

Il bunker di comando non è altro che una vecchia cantina sotto una fattoria semidistrutta. «I nemici stanno a 6 chilometri da qui, dunque a tiro delle nostre granate, che hanno un raggio utile di una decina di chilometri. Li abbiamo bloccati appena di fronte a Lyptsi, la parte costruita del villaggio invece resta contesa tra le pattuglie che escono di notte». Le prime case di Lyptsi sono visibili a occhio nudo, non c’è anima viva, un paio di incendi provocati dagli scambi di tiri dell’ultima notte consumano lentamente le travi tra le macerie diffondendo un tenue filo di fumo.

11 luglio 2024

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