Renzo Piano e Lucia Annunziata talenti nel mirino dei politici

Caro Aldo,
il parlamentare di Forza Italia Paroli vuole punire Renzo Piano perché a suo dire «non può accettare incarichi fuori dall’Italia». Mi chiedo se siamo impazziti.
Stefano Tura, Milano

Caro Stefano,
Non siamo impazziti. Siamo un Paese in cui i vincitori vogliono stravincere. A Paroli ha già risposto molto bene Luigi Mascheroni sul Giornale, ricordando che Piano è senatore a vita proprio per gli «incarichi fuori dall’Italia» che ha ricevuto: vale a dire progettando alcuni tra i grandi edifici pubblici del nostro tempo, dal Beaubourg di Parigi al Whitney Museum di New York, dalla sede dell’Academy degli Oscar a Los Angeles al Cern di Ginevra. Piano è insomma uno degli italiani più stimati all’estero, al livello di Riccardo Muti e Giorgio Armani, per citare due artisti non di sinistra. Questo modo di concepire la politica come guerra per bande colpisce e spaventa. L’altro giorno su Instagram (l’unico social che frequento, gli altri profili a mio nome non sono miei) mi hanno mandato un post scritto in un linguaggio virulento. Non è una novità, da quando ho pubblicato un libro critico con Mussolini ricevo quasi ogni giorno insulti e intimidazioni in varie forme. Stavolta però l’obiettivo non ero io ma una giornalista che stimo: Lucia Annunziata, accusata di aver «fatto per 18 anni un’informazione faziosa fino all’indecenza, ovviamente lautamente pagata da tutti gli italiani», poiché a suo dire «i comunisti come la Annunziata sanno stare solo da padroni perché sono detentori del Verbo». Un linguaggio scomposto, da tazebao anni ’70 (vi risparmio i commenti dei follower, come sempre ancora più virulenti). Di solito questi messaggi sono firmati da anonimi e da nomignoli inventati. L’autore invece si firma con nome e cognome: Antonio Iannone. Lo cerco su Google pensando sia il capo di qualche gruppo estremista; invece è senatore di Fratelli d’Italia, partito di maggioranza relativa dal 30% che ambisce a diventare la grande forza conservatrice che manca all’Italia. E non è un peone, è il capo del partito in una delle Regioni più importanti d’Italia, la Campania, che è poi la stessa di Lucia Annunziata. Lucia non ha bisogno di difese; la sua competenza è ben nota a tutti. Ha avuto una formazione di sinistra, che l’ha resa particolarmente critica verso quella parte politica. Questo episodio mi ha ricordato quando, 25 anni fa, l’allora direttore della Stampa Marcello Sorgi mi chiese di seguire, oltre al Quirinale, la vita di un partito di opposizione (quelli della maggioranza erano già tutti presi). Scelsi Alleanza nazionale, perché era quella che assomigliava di più a un partito vero, con i leader e le correnti; e poi volevo vedere da vicino questi postfascisti. Tutti erano usciti dalla temperie degli anni ’70, qualcuno come Mirko Tremaglia dalla guerra civile. Non erano insomma delle mammolette. Per citare solo quelli che non ci sono più, ricordo Teodoro Buontempo, che a dispetto del soprannome — Er Pecora — era un uomo gentile e financo elegante, e Giulio Maceratini, un combattente duro. Ma nessuno di loro si sarebbe sognato di parlare in quei termini di un giornalista; tanto meno di Lucia Annunziata, che un po’ tutti, da Fini in giù, stimavano molto.

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«Virginia Montalcini, la sua vita finì ad Auschwitz»

Virginia Montalcini, cugina di mio nonno Enzo Montalcini, nacque il 20 settembre del 1920 a Torino. Crebbe nel centro di Torino nella stessa strada, corso Vittorio Emanuele II, dove visse la moglie di mio nonno, Gabriella Levi. Frequentò come suo cugino Enzo il liceo classico d’Azeglio, prima delle leggi razziali che negarono poi a ogni cittadino di credo ebraico di frequentare le scuole e le Università come del resto accaduto a Rita Levi Montalcini, cugina di Enzo e Virginia. Virginia tentò la fuga verso la Svizzera, dove molti membri di fede ebraica trovarono riparo se non fuggiti oltremare, ma venne catturata il 23 gennaio a Sondalo, provincia di Sondrio. Successivamente fu portata al carcere di San Vittore, a Milano. Una settimana dopo venne caricata sul convoglio 6 del Binario 21 della stazione Centrale di Milano da dove venne spedita verso una destinazione ignota: Auschwitz. Qui arrivò contemporaneamente a Liliana Segre. Ma a differenza di Liliana non uscì viva da quel campo di concentramento. Virginia, ammalata di tifo che aveva contratto durante il viaggio in treno, molto magra e debilitata, non fu ritenuta utile dai suoi carcerieri e venne indirizzata verso le camere a gas. Vecchi compagni sopravvissuti riuscirono a ricostruire fatti e documenti su di lei e altri deportati. Per questo venne depositata una pietra d’inciampo in sua memoria di fronte al liceo D’Azeglio di Torino: se ne prese cura personalmente Mario Montalcini, parente stretto di Virginia e di Rita, figlio di Cesare Montalcini.
Daniel Mateo Montalcini

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