Bill Walton è morto: la leggenda Nba con il cuore hippy aveva 71 anni
Due volte campione Nba a Portland e Boston, Bill Walton era noto anche come «The Grateful Red» per la sua passione per la musica e la zazzera rossa. Anticonformista, si schierò con i grandi contro il razzismo e contro la guerra del Vietnam
Il basket piange Bill Walton, grande ma anche sfortunato campione della Nba morto all’età di 71 anni dopo una dura e lunga lotta con un tumore: lui che sotto le plance intimidiva e combatteva grazie ai suoi 211 centimetri distribuiti su un fisico potente, alla fine ha dovuto arrendersi alla malattia.
Due titoli Ncaa con la mitica Ucla di Los Angeles, due anche i trionfi professionistici, distanziati di 9 anni l’uno dall’altro: il primo con i Portland Trail Blazers nel 1977, il secondo nel 1986 con i Boston Celtics. In mezzo un lungo periodo tribolato, a causa della frattura dell’osso navicolare di un piede che condizionò quella fase della carriera di Walton. In particolare segnò l’esperienza ai San Diego Clippers (ora Los Angeles Clippers) che avevano investito su di lui, definito la «risposta bianca a Kareem Abdul Jabbar». A San Diego – dove si erano trasferiti, cambiando nome, i Buffalo Braves – non riuscì mai a giocare una stagione intera ma solo spezzoni intercalati dagli stop.
Quando pareva al capolinea, i Celtics credettero in lui ed ebbero ragione: Walton contribuì non poco al titolo del 1986, conquistato contro gli Houston Rockets ma anche idealmente strappato ai Lakers dello showtime, che l’anno prima in finale avevano battuto proprio Boston.
Nato il 5 novembre 1952 a La Mesa, contea di San Diego (quindi i Clippers avevano pensato a lui anche perché enfant du pays), William Theodore «Bill» Walton — inconfondibile la sua capigliatura rossa — ci riporta a un basket contiguo all’era dei Russell e dei Chamberlain e, viceversa, calato pienamente nel periodo di Kareem Abdul Jabbar o di Julius Erving, detto che Doctor J giocava nel ruolo di ala e non in quello di centro.
Ma Bill è stato pure altro. Ad esempio, un hippie del parquet (anche il look, con la barba rossa e una fascia a cingergli la testa, sosteneva l’immagine), oppure un pacifista che contestava la presenza degli Usa nella guerra del Vietnam e che per questo motivo ebbe i suoi problemi (c’è una foto che lo ritrae mentre fa un sit-in, con gli agenti che cercano di farlo sloggiare).
Nel pieno degli anni Settanta dovette adattarsi ai principi di John Wooden, guru di Ucla: tra questi l’etica, una bella presenza e l’astinenza dall’alcool. Walton si consolava così punzecchiando coach Wooden con battute e critiche nei confronti del presidente Nixon, atteggiamenti che preoccupavano l’allenatore, ormai costretto a ricredersi sul fatto che «da San Diego non provenga mai un giocatore decente».

Bill Walton nel 2022 mentre scherza con Nikola Djokic, centro dei Denver Nuggets (Ap)
Diventò poi vegetariano (e non era ancora di moda esserlo), adorava fare passeggiate in montagna e giri in bicicletta, era un anticonformista convinto.
Insieme ad altri colleghi, tra cui Bill Russell, Jim Brown e Kareem Abdul-Jabbar, decise di opporsi non solo alla follia del Vietnam, ma anche al razzismo, alla violenza politica e sociale: la sua condotta personale si orientò alla pace e alla libertà individuale.
Adorava infine la musica: i tifosi lo soprannominarono così «The Grateful Red» a causa della passione per il gruppo rock Grateful Dead. Considerato come una delle più grandi leggende viventi della Nba e della Ncaa, entrato nella Hall of Fame nel 2006 e inserito tra i 75 più grandi giocatori di tutti i tempi, «Bill il Rosso»ha avuto anche una discreta carriera come cronista e come opinionista per Espn. Ebbe modo di parlare pure di suo figlio Luke (decisamente meno bravo e, soprattutto, non un centro come il padre) che, ironia della sorte, vista la rivalità tra Los Angeles e Boston, giocò per i Lakers e poi li allenò pure.
Nel dargli l’addio viene da domandarsi che cosa sarebbe stato Bill Walton senza i mille acciacchi che l’hanno martoriato a ginocchia, naso, polso, piedi. Forse sarebbe stato davvero il Jabbar bianco, detto che anche così è stato un giocatore indimenticabile, il faro di quella Portland che impazzì quando lui la trascinò al successo, nel segno della «blazermania»” e di quella battuta che riecheggiava nello spogliatoio prima di entrare in campo: «Che cosa ne faremo degli avversari? Li prenderemo per il c…».