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Belloni, in Lvmh c’è ancora valore da far crescere. Il futuro? Con bravi leader
E il gruppo, nel frattempo, è cresciuto: nel 2001 aveva in portafoglio circa 60 marchi e registrava ricavi per 12,2 miliardi di euro, un EBIT di 1,56 miliardi di euro e un valore di Borsa compreso tra i 15-20 miliardi di euro. Oggi, Lvmh ha in portafoglio 75 maison (6 italiane), ha registrato nel 2023 ricavi per 86,2 miliardi di euro, 7 volte il fatturato del 2001, un EBIT 15 volte superiore rispetto al 2001 ed un valore di Borsa è cresciuto di circa 30 volte. Quale è stato il suo contributo?
«Con l’aiuto di compagni di viaggio formidabili, credo di avere portato la mia carica positiva, capacità analitica ed un approccio strategico chiaro. Ho avuto la fortuna e la sfortuna di prendere le mie mansioni subito dopo l'11 settembre 2001. Le situazioni di difficoltà sono occasioni ideali per ripensare le strategie aziendali. Il gruppo era cresciuto negli anni precedenti essenzialmente per linee esterne, con un numero elevato di acquisizioni. Ci eravamo dedicati meno a estrarre valore dalle aziende acquisite. Abbiamo analizzato il portafoglio e sterzato verso una strategia di crescita interna, privilegiando le maison più importanti ed a più forte potenziale, e dismettendone altre marginali. È tuttora la nostra strategia principale. Questo non vuol dire che abbiamo smesso di fare acquisizioni. Nel tempo abbiamo integrato marche magnifiche come Hublot, Bulgari, Loro Piana, Tiffany ed altre ancora. Le storie delle nostre maison sono estremamente interessanti, delle vere e proprie saghe che attraversano i secoli».
Qual è la sua preferita?
«Non si può non parlare di Louis Vuitton, la nostra marca più importante. Nacque a metà del 1800, quando c'erano i cavalli e le carrozze. Nel tempo, ha espresso l'arte del viaggio adattandosi ai cambiamenti nei mezzi di trasporto: le navi, i treni, poi le automobili. Oggi si vedono i trolley Louis Vuitton negli aeroporti. Proiettandoci nel futuro, continueremo ad essere i campioni dell’arte di viaggiare anche quando ci saranno droni, razzi e automobili a guida autonoma. Sono molto affezionato anche a Sephora. Acquistata alla fine degli anni ‘90 per l’equivalente di 400 milioni di euro (allora si usavano i franchi), quando arrivai nel 2001 era in difficoltà, perdeva più di 100 milioni e ci chiedemmo se avessimo le competenze per portarla al successo, o fosse meglio venderla. Decidemmo di tenerla e di trattarla non come un distributore ma come una vera marca, focalizzandoci sugli elementi differenzianti, i paesi più forti e sull’offerta di prodotti innovativi, non presenti in altri negozi. Vent’anni più tardi, è l'insegna di distribuzione di prodotti di beauty numero uno al mondo. Quest'anno arriveremo a 16 miliardi di fatturato, con più di 40 mila collaboratori entusiasti, quote di mercato elevate ed in crescita in tutto il mondo. Le presidenti delle tre regioni mondiali sono donne, e la clientela ha grandi fan in tutte le generazioni. È una storia di grandissimo successo di cui siamo molto orgogliosi e che porta almeno un po’ il mio nome, sì.
Svelo un vantaggio competitivo: il mio panel privato di esperti. Tutta la famiglia dà consigli preziosi. Mia moglie Giovanna è una critica attenta sull’abbigliamento ed il servizio dei negozi, i ragazzi più grandi sono molto sensibili ai trends emergenti, e l'ultima, di 16 anni mi dà consigli utilissimi sulle piattaforme digitali, da Tik Tok a Chat GPT. Bisogna sapere ascoltare, stare al passo con il mondo che cambia è una cosa che continua ad appassionarmi. È anche essenziale per il nostro mestiere, dato che la strategia è di perseguire la desiderabilità delle marche a lungo termine, e quindi mantenerle interessanti, fresche, sorprendenti per clienti in continua evoluzione. Ma sa qual è la cosa che più mi ha dato soddisfazione in questi anni?»
Dica…
«Il contributo che ho dato alla crescita di una generazione di management di valore mondiale. Anzitutto, abbiamo avuto la fortuna e la capacità di attrarre i talenti migliori del mercato. In secondo luogo, la nostra strategia organizzativa decentralizzata consente esperienze molto formative: ogni marca è un'azienda indipendente, dove il management ha la responsabilità completa della catena del valore, e il compito di definire le strategie di sviluppo con grande autonomia, e metterle in pratica. Infine, anche il mio stile di management penso abbia contribuito. Credo nell’arte della conversazione, del coltivare dubbi e curiosità, diffido delle certezze e del compiacimento. Preferisco porre buone domande che aiutino i team a riflettere ed arrivare a buone conclusioni di cui hanno forte convinzione, piuttosto che rubare loro l’iniziativa, o dare le mie risposte. Tutto sommato, un terreno di crescita fertile per chi ha la passione di divenire un leader».
Tornando all’Italia? Quanto conta per il gruppo il nostro Paese?
«È decisamente la seconda patria di Lvmh. Abbiamo 6 marchi italiani di cui siamo molto fieri, più di 15 mila persone, quasi 50 siti produttivi diretti, senza parlare dell’indotto di oltre 5000 aziende che collaborano con noi, all’interno di quel magnifico ecosistema che sono le filiere italiane di manifattura di alta qualità. Sono aziende medie e piccole, spesso a conduzione famigliare, che contribuiscono know how unico, idee, innovazione, e la magica “mano italiana”. Il rafforzamento di queste filiere è strategico per la nostra industria, ed anche per il nostro paese. Noi facciamo la nostra parte investendo più di 150 milioni ogni anno e creando posti di lavoro a migliaia per soddisfare la domanda dei mercati mondiali».
Quali le prossime strategie?
«La strategia non cambia: crescita interna attraverso lo sviluppo delle nostre maisons, nuove acquisizioni solo se straordinarie, rafforzamento delle filiere e della rete di magnifici negozî, integrazione di nuove tecnologie…Ma il vero fattore chiave è la qualità dei leaders che riusciremo a sviluppare. Il futuro è un po’ una scatola nera che proporrà opportunità’ e sfide difficili da prevedere. Se avremo i leaders migliori, sapranno prendere le decisioni giuste, ed il gruppo continuerà a fare bene. So che può suonare un po' semplicistico, ma ne sono fortemente convinto. Ecco perché credo che la mia legacy più importante sia il management che ho contribuito a formare».
Nel frattempo, siamo arrivati a Firenze e se non fosse per il suo collaboratore che ci invita caldamente a scendere da treno arriveremmo a Salerno. Ha parlato per due ore filate con la stessa energia. Ma come fa?
«Le ho detto che uno dei miei compiti è fare il Chief Energy Officer…Senza energia positiva non si va da nessuna parte!».
«Con l’aiuto di compagni di viaggio formidabili, credo di avere portato la mia carica positiva, capacità analitica ed un approccio strategico chiaro. Ho avuto la fortuna e la sfortuna di prendere le mie mansioni subito dopo l'11 settembre 2001. Le situazioni di difficoltà sono occasioni ideali per ripensare le strategie aziendali. Il gruppo era cresciuto negli anni precedenti essenzialmente per linee esterne, con un numero elevato di acquisizioni. Ci eravamo dedicati meno a estrarre valore dalle aziende acquisite. Abbiamo analizzato il portafoglio e sterzato verso una strategia di crescita interna, privilegiando le maison più importanti ed a più forte potenziale, e dismettendone altre marginali. È tuttora la nostra strategia principale. Questo non vuol dire che abbiamo smesso di fare acquisizioni. Nel tempo abbiamo integrato marche magnifiche come Hublot, Bulgari, Loro Piana, Tiffany ed altre ancora. Le storie delle nostre maison sono estremamente interessanti, delle vere e proprie saghe che attraversano i secoli».
Qual è la sua preferita?
«Non si può non parlare di Louis Vuitton, la nostra marca più importante. Nacque a metà del 1800, quando c'erano i cavalli e le carrozze. Nel tempo, ha espresso l'arte del viaggio adattandosi ai cambiamenti nei mezzi di trasporto: le navi, i treni, poi le automobili. Oggi si vedono i trolley Louis Vuitton negli aeroporti. Proiettandoci nel futuro, continueremo ad essere i campioni dell’arte di viaggiare anche quando ci saranno droni, razzi e automobili a guida autonoma. Sono molto affezionato anche a Sephora. Acquistata alla fine degli anni ‘90 per l’equivalente di 400 milioni di euro (allora si usavano i franchi), quando arrivai nel 2001 era in difficoltà, perdeva più di 100 milioni e ci chiedemmo se avessimo le competenze per portarla al successo, o fosse meglio venderla. Decidemmo di tenerla e di trattarla non come un distributore ma come una vera marca, focalizzandoci sugli elementi differenzianti, i paesi più forti e sull’offerta di prodotti innovativi, non presenti in altri negozi. Vent’anni più tardi, è l'insegna di distribuzione di prodotti di beauty numero uno al mondo. Quest'anno arriveremo a 16 miliardi di fatturato, con più di 40 mila collaboratori entusiasti, quote di mercato elevate ed in crescita in tutto il mondo. Le presidenti delle tre regioni mondiali sono donne, e la clientela ha grandi fan in tutte le generazioni. È una storia di grandissimo successo di cui siamo molto orgogliosi e che porta almeno un po’ il mio nome, sì.
Svelo un vantaggio competitivo: il mio panel privato di esperti. Tutta la famiglia dà consigli preziosi. Mia moglie Giovanna è una critica attenta sull’abbigliamento ed il servizio dei negozi, i ragazzi più grandi sono molto sensibili ai trends emergenti, e l'ultima, di 16 anni mi dà consigli utilissimi sulle piattaforme digitali, da Tik Tok a Chat GPT. Bisogna sapere ascoltare, stare al passo con il mondo che cambia è una cosa che continua ad appassionarmi. È anche essenziale per il nostro mestiere, dato che la strategia è di perseguire la desiderabilità delle marche a lungo termine, e quindi mantenerle interessanti, fresche, sorprendenti per clienti in continua evoluzione. Ma sa qual è la cosa che più mi ha dato soddisfazione in questi anni?»
Dica…
«Il contributo che ho dato alla crescita di una generazione di management di valore mondiale. Anzitutto, abbiamo avuto la fortuna e la capacità di attrarre i talenti migliori del mercato. In secondo luogo, la nostra strategia organizzativa decentralizzata consente esperienze molto formative: ogni marca è un'azienda indipendente, dove il management ha la responsabilità completa della catena del valore, e il compito di definire le strategie di sviluppo con grande autonomia, e metterle in pratica. Infine, anche il mio stile di management penso abbia contribuito. Credo nell’arte della conversazione, del coltivare dubbi e curiosità, diffido delle certezze e del compiacimento. Preferisco porre buone domande che aiutino i team a riflettere ed arrivare a buone conclusioni di cui hanno forte convinzione, piuttosto che rubare loro l’iniziativa, o dare le mie risposte. Tutto sommato, un terreno di crescita fertile per chi ha la passione di divenire un leader».
Tornando all’Italia? Quanto conta per il gruppo il nostro Paese?
«È decisamente la seconda patria di Lvmh. Abbiamo 6 marchi italiani di cui siamo molto fieri, più di 15 mila persone, quasi 50 siti produttivi diretti, senza parlare dell’indotto di oltre 5000 aziende che collaborano con noi, all’interno di quel magnifico ecosistema che sono le filiere italiane di manifattura di alta qualità. Sono aziende medie e piccole, spesso a conduzione famigliare, che contribuiscono know how unico, idee, innovazione, e la magica “mano italiana”. Il rafforzamento di queste filiere è strategico per la nostra industria, ed anche per il nostro paese. Noi facciamo la nostra parte investendo più di 150 milioni ogni anno e creando posti di lavoro a migliaia per soddisfare la domanda dei mercati mondiali».
Quali le prossime strategie?
«La strategia non cambia: crescita interna attraverso lo sviluppo delle nostre maisons, nuove acquisizioni solo se straordinarie, rafforzamento delle filiere e della rete di magnifici negozî, integrazione di nuove tecnologie…Ma il vero fattore chiave è la qualità dei leaders che riusciremo a sviluppare. Il futuro è un po’ una scatola nera che proporrà opportunità’ e sfide difficili da prevedere. Se avremo i leaders migliori, sapranno prendere le decisioni giuste, ed il gruppo continuerà a fare bene. So che può suonare un po' semplicistico, ma ne sono fortemente convinto. Ecco perché credo che la mia legacy più importante sia il management che ho contribuito a formare».
Nel frattempo, siamo arrivati a Firenze e se non fosse per il suo collaboratore che ci invita caldamente a scendere da treno arriveremmo a Salerno. Ha parlato per due ore filate con la stessa energia. Ma come fa?
«Le ho detto che uno dei miei compiti è fare il Chief Energy Officer…Senza energia positiva non si va da nessuna parte!».