I Rifugiati alle Olimpiadi: chi sono gli atleti della squadra in gara a Parigi. Le storie
Riuniti nella rappresentanza voluta dall’Onu, ai Giochi Olimpici e Paralimpici portano le loro storie di riscatto e coraggio. «Lo sport può essere trasformativo per le persone la cui vita è stata sconvolta», ha detto l'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati Filippo Grandi
Cindy Ngamba ha lasciato il Camerun a 11 anni per trovare una vita migliore nel Regno Unito attraverso la boxe: anche a causa del suo orientamento sessuale, non può tornare nel suo Paese di origine che considera l’omosessualità un reato. Perina Lokure Nakang ne aveva solo sette quando a causa della guerra civile fu costretta ad abbandonare il Sud Sudan per andare a vivere con sua zia in un campo profughi in Kenya. Ramiro Mora Romero fuggì da Cuba grazie a un circo itinerante. Un viaggio pieno di ostacoli, come quello affrontato da Farida Abaroge, Alaa Maso e Marin Balsini, fuggiti rispettivamente da Etiopia, Siria e Iran. O da Amir Rezanejad, che dopo aver camminato per 16 giorni attraverso le montagne dell'Iran fino alla Turchia, in Germania ha iniziato una nuova vita grazie alla canoa (e a un video su YouTube).
Sono solo alcune delle storie degli atleti della Squadra Olimpica dei Rifugiati (l’Équipe Olympique des Réfugiés, EOR), che partecipa ai Giochi per la terza volta nella storia. Il team è composto quest’anno da 36 atleti (di cui 12 donne; l'elenco completo è disponibile qui), scelti tenendo conto delle rispettive performance sportive e dello status di rifugiato certificato dall’Agenzia dei rifugiati dell’Onu (Unhcr): originari di 11 Paesi e ospitati da 15 Comitati Olimpici Nazionali (Austria, Canada, Francia, Germania, Israele, Italia, Giordania, Kenya, Messico, Paesi Bassi, Spagna, Svezia, Svizzera, Regno Unito e Usa), si affronteranno in 12 discipline (atletica, badminton, pugilato, canoa, ciclismo, judo, tiro a segno, nuoto, taekwondo, sollevamento pesi e lotta). Si tratta della squadra più numerosa di sempre: nel 2016 a Rio de Janeiro il team contava infatti 10 atleti, mentre a Tokyo 2020 erano 29, nonostante le restrizioni del Covid. Molti sono sostenuti dalle borse di studio per atleti rifugiati del Cio, mentre Nike fornisce le divise.
I due atleti rifugiati residenti in Italia
Per la prima volta dalla creazione della squadra, a Parigi sono presenti anche due atleti rifugiati residenti in Italia: Iman Mahdavi, nella lotta libera, e Hadi Tiranvalipour, nel taekwondo. A capo della missione Masomah Ali Zada, fuggita dall’Afghanistan nel 2016 per inseguire i suoi sogni in bicicletta. «La selezione di Iman Mahdavi e Hadi Tiranvalipour per le Olimpiadi di Parigi 2024 è senza dubbio un traguardo importantissimo non solo per i due atleti selezionati, ma per ciò che esso rappresenta per la causa dei rifugiati e per l’Italia che li ha accolti. Le persone in fuga sognano di poter ricostruire il proprio futuro in sicurezza e dignità. Troppo spesso la narrazione che li riguarda mette in luce solo i bisogni primari tralasciando il talento, il coraggio e la determinazione che portano con se. Lo sport rappresenta uno dei palcoscenici più importanti per ribadire i valori della solidarietà e dell’inclusione», le parole di Chiara Cardoletti, Rappresentante UNHCR per l’Italia, la Santa Sede e San Marino, in occasione della presentazione ufficiale del team il 2 maggio scorso.
Un cuore per una squadra di oltre 100 milioni di persone
La Squadra Olimpica dei Rifugiati del Cio - questo il nome ufficiale - porta a Parigi 2024 un mosaico di storie, sogni, speranze, ambizioni, sacrifici, coraggio, accomunate dal desiderio di libertà e riscatto, in un Paese diverso dal proprio. Un mosaico unito in questa edizione da un vero e proprio logo identificativo: un cuore rosso circondato da frecce multicolori. Una bandiera che rappresenta gli oltre 117 milioni di persone costrette a fuggire in tutto il mondo, come mostrano i dati del Global Trend 2023 dell’UNHCR (erano 108,4 milioni a fine 2022), in crescita per il dodicesimo anno consecutivo, anche a causa degli ultimi conflitti scoppiati e degli sconvolgimenti provocati dai cambiamenti climatici. Una nazione fatta di nazioni.
«Questo emblema ci unisce tutti. Siamo tutti uniti dalla nostra esperienza, anche se tutti diversi, abbiamo tutti dovuto fare un viaggio per arrivare dove siamo. Non vedo l’ora di indossarlo con orgoglio!», spiegò alla presentazione Masomah Ali Zada, capo missione della squadra olimpica dei rifugiati. «La Squadra Olimpica dei Rifugiati dovrebbe ricordarci la resilienza, il coraggio e le speranze di tutti coloro che sono stati sradicati da guerre e persecuzioni. Questi atleti rappresentano ciò che gli esseri umani possono fare, anche di fronte ad avversità estreme. La squadra ci ricorda anche che lo sport può essere trasformativo per le persone la cui vita è stata sconvolta da circostanze spesso strazianti. Trasformativo non solo per gli olimpionici, ma per tutti. Lo sport può offrire tregua, una fuga dalle preoccupazioni quotidiane, un senso di sicurezza, un momento di divertimento. Può dare alle persone la possibilità di guarire fisicamente e mentalmente e di tornare a far parte di una comunità», la dichiarazione dell'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati Filippo Grandi, che ha partecipato alla cerimonia di apertura dei Giochi e alla staffetta della torcia Olimpica, in rappresentanza dell'Unhcr, ed è stato insignito dell’Alloro Olimpico, il premio del Cio che onora i risultati eccezionali in materia di istruzione, cultura, sviluppo e pace attraverso lo sport.


Filippo Grandi con la Torcia olimpica (Getty Images)
La rappresentanza alle Paralimpiadi
Otto atleti rifugiati rappresenteranno, poi, il team anche ai Giochi paralimpici, in programma da mercoledì 28 agosto a domenica 8 settembre: provengono da sei Paesi e gareggeranno in sei sport: atletica, pesistica, tennis tavolo, taekwondo, paratriathlon e scherma in carrozzina. In quest'ultima disciplina troviamo Amelio Castro Grueso, atleta colombiano e residente in Italia che, dopo la morte della madre a 16 anni, perse quattro anni dopo l’uso delle gambe in un incidente stradale. E poi ci sono Zakia Khudadadi, Guillaume Junior Atangana, Ibrahim Al Hussein, Salman Abbariki, Hadi Darvish, Sayed Amir Hossein Pour, Hadi Hassanzada. A guidare il team, Nyasha Mharakurwa, che ha rappresentato lo Zimbabwe nel tennis in carrozzina ai Giochi di Londra 2012. «Tutti gli atleti paralimpici hanno storie di incredibile resilienza, ma le storie di questi atleti e dei loro viaggi come rifugiati sopravvissuti a guerre e persecuzioni per competere ai Giochi sono di una bellezza fuori dal comune», ha affermato il presidente del Comitato Paralimpico Internazionale, Andrew Parsons. Il sostegno ai rifugiati e alle popolazioni sfollate rimane una priorità fondamentale per il Cio e fa parte della Raccomandazione 11 dell’Agenda Olimpica 2020+5.
Una storia già vinta
Se vinceranno una medaglia olimpica, la prima della storia della squadra dei rifugiati, gli atleti non potranno cantare l’inno del loro Paese d’origine: il protocollo prevede, infatti, che venga suonato l'inno ufficiale delle Olimpiadi, creato dal compositore greco Spýros Samáras. Ma le loro storie, sono già di diritto - tutte - sul podio dei vincitori.