«Washington Post», l'«auto-Watergate» in redazione: guerra per il futuro del giornale
Il futuro direttore del «Washington Post» ha usato in passato informazioni ottenute illegalmente per i suoi articoli. Lo svela un'inchiesta dello stesso giornale
Era cominciata come la protesta di una redazione considerata a lungo una gloria nazionale — quella del Washington Post, il giornale che mezzo secolo fa sfidò Richard Nixon costringendo il presidente degli Stati Uniti a dimettersi per lo scandalo Watergate — per la rimozione della sua prima direttrice, Sally Buzbee: lite aperta con William Lewis, l’arcigno amministratore (ed ex managing editor del Wall Street Journal di Rupert Murdoch) chiamato a gennaio da Jeff Bezos a rimettere ordine in un giornale in crisi. Il miliardario che 11 anni si presentò come editore filantropo, ora, non più affascinato da quella storia gloriosa, guarda ai numeri ed è stufo di ripianare perdite. E, allora, fuori la Buzbee, dentro un direttore americano transitorio fino alle presidenziali del prossimo novembre. Poi arriverà Robert Winnett, britannico come Lewis, che sarà il nuovo direttore.
Sembrava una semplice storia di dolorose ristrutturazioni per salvare un giornale con una grande storia ma che ora sta sprofondando in una crisi con poche vie d’uscita. La redazione è infuriata perché la direttrice che è stata messa alla porta ha fatto per tre anni un ottimo giornale che ha vinto sei premi Pulitzer. Un giornale che ha perso metà della sua audience dal 2020, mentre i conti dell’ultimo anno sono in rosso per 77 milioni di dollari, replica Lewis che davanti all’assemblea dei redattori parla di revisione radicale del modo di fare informazione e di ampio ricorso agli strumenti dell’intelligenza artificiale.
Protesta rientrata, trasformata nel mal di pancia comune a tutte le redazioni americane sottoposte a drastiche cure dimagranti da editori che reagiscono alla rivoluzione digitale che trasforma l’informazione più tagliando che innovando? Solo in apparenza: sotto la brace ha continuato a covare il fuoco di un allarme anche politico per la «britannizzazione» della stampa Usa (direttori inglesi anche in molte altre testate, dal Wall Street Journal al Daily Beast, a Bloomberg) e, soprattutto, per l’arrivo di un amministratore e di un direttore conservatori in una testata che è sempre stata progressista.
Ed ecco divampare un nuovo incendio: il New York Times e lo stesso Washington Post hanno messo in pista squadre di giornalisti investigativi e nel week end sono usciti sulle due testate articoli che ricostruiscono le carriere di Lewis e Winnett. Successi e molte luci, ma anche le ombre di professionisti di rango che, divorati dall’ambizione, ignorano le regole etiche del giornalismo, usano metodi illegali per raccogliere informazioni sui «ricchi e famosi», versano centinaia di migliaia di sterline a informatori che rubano notizie e documenti su personaggi di grande peso: dagli ex premier Tony Blair e Gordon Brown a Paul McCarney a un ex capo dell’MI6, il servizio segreto di Sua Maestà britannica. Lewis, che viene dai giornali di Murdoch, 12 anni fa è stato anche coinvolto nello scandalo che ha spinto il principe Harry, un membro della famiglia reale, a denunciare il gruppo dell’editore australiano, sostenendo di essere stato spiato.
Impegnatosi davanti alla redazione a rispettare l’autonomia dei giornalisti, l’amministratore delegato del Washington Post, arrivato da pochi mesi, era già da tempo nel mirino: è accusato di aver fatto pressioni interne per evitare che le notizie sul caso giudiziario britannico che lo coinvolge finissero sul suo giornale. Che, ad esempio, ha ignorato la richiesta del principe Harry e dell’attore Hugh Grant di coinvolgere anche Lewis nella loro azione legale contro il gruppo Murdoch. Pare che il capoazienda avesse anche scoraggiato la Buzbee dall’indagare sul suo controverso passato giornalistico dopo le prime indiscrezioni pubblicate dal Npr, il sito della radio pubblica Usa. Cosa che metterebbe sotto tutt’altra luce anche l’uscita di scena della prima direttrice della storia del quotidiano.
Ora, in piena tempesta, Lewis non ha potuto impedire che i suoi stessi redattori indagassero sul suo passato. L’inchiesta, firmata da quattro dei più esperti giornalisti investigativi, ricostruisce parte di quelle oscure vicende di vent’anni fa attraverso le bozze di un libro mai pubblicato scritto da John Ford, un attore fallito diventato informatore di Winnett, reo confesso di aver rubato e trasmesso alle sue testate informazioni usando metodi illegali. Una storia che va avanti per anni, coinvolge anche Lewis e si dipana attraverso due giornali conservatori britannici: il Daily Telegraph (del quale ancora oggi Winnett è vicedirettore) e il Sunday Times di Murdoch. Lewis, Winnett e Ford si sono rifiutati di collaborare alle inchieste del Post e del New York Times. Ora i giornalisti del Post chiedono al loro capoazienda di rispondere a una serie di domande sulla correttezza dei suoi comportamenti etici. L’hanno messo con le spalle al muro o sta per arrivare la controffensiva di un publisher che dal 2014 a poco tempo fa ha guidato il Wall Street Journal senza mai comprimere l’autonomia dei giornalisti? E Bezos, che tiene molto alla sua immagine, come si comporterà: ingredienti per un altro serial televisivo alla Succession. Ancora in piena evoluzione.