L’implacabile lotteria del rilascio, quelle vite appese a un capriccio

Scorrono le immagini degli ostaggi liberati: un bambino e la madre, una donna anziana che un miliziano di Hamas porta in braccio all’ambulanza, un’altra che avanza ondeggiando, due occhi pieni di storia, il timore incessante della paura che modella il viso dell’uomo. Un elemento comune è questo brusco impeto della liberazione, il suo incendio che sembra lasciare il loro corpo inerte, impassibile, sfinito da un troppo grande sperpero dell’essere.

Gli armati di Hamas, di cui guizzano solo gli occhi negli spiragli dei passamontagna, si affannano a aiutare, sorreggere, far strada nel percorso verso le ambulanze che condurranno via i prigionieri. Per loro, domani, queste sequenze saranno la memorizzazione della vittoria. Mi par di leggere nel vero colore degli sguardi la menzogna di quelle premure e attenzioni, non questa o quella menzogna, la volontà della menzogna. Come un’acqua torbida, un fango.

Le stesse immagini ma dall’altra parte, in Israele: sollievo per i liberati e umiliazione. Un uomo di Hamas che tiene la mano di un bambino... Un cuneo di implacabile verità nel soffice non sapere dell’infanzia.

L’ossessione delle immagini che ti ossessionano, che ti abitano, che ti rodono, che ti fanno vivere, che ti distruggono.

Donne e bambini: c’è da render omaggio alle anime capaci di trovare nel sentimento della offesa di cui sono vittime un principio di forza e di speranza. Son questi i veri eroi, non quelli di Plutarco o dei fanatici, che mi ispirano paura e insieme noia.

In questa vicenda tragica, i prigionieri, le trattative, il diverso peso di ognuno, lo scambio... Ogni avvenimento perde le sue esatte proporzioni come un paesaggio nella nebbia. C’è chi ricorda che anche i palestinesi liberati dalle carceri israeliane, donne e bambini (bambini!) e accolti come eroi, hanno il diritto di esser scrutati con gli stessi occhi. Sono il contrappunto tenebroso di questo ciclo infernale diventato routine, attacco e contrattacco, attentato e rappresaglia. Bisogna uccidere gli uccisori. E intanto il sangue cola. Come fare in modo che la gioia degli uni non diventi la sofferenza dell’altro? Forse bisognerebbe avere il coraggio di guardare gli uni e gli altri cercandovi solo una comune dolente pazienza di vivere.

Nel meccanismo di quanto accade in questi giorni di tregua e poi negli altri che seguiranno via via che Hamas deciderà come le conviene distillare il rilascio ben remunerato dei suoi prigionieri, sibila qualcosa di arcaico e terribile, un gran teatro di passioni ambigue e nude, di ferocia e dedizioni, di orgogli e umiliazioni mortali. Un giornalista che spiegava le regole della liberazione degli ostaggi, un po’ banalmente, l’ha paragonata a una lotteria. Poco, troppo misera come metafora per una vicenda di alienità e di solitudine da cui si leva pietosamente una implorazione. Credo sia più efficace riandare alla tragedia classica, a Eschilo, dominata dall’eccezionale bisogno di senso, nel tempo e nello spazio, e dall’esperienza di tensioni inaudite.

Nella Gaza degli ostaggi, nell’acido esordio del terzo millennio, la rappresentazione de Le supplici avrebbe echi profondi. C’è abiezione, crudeltà, grandezza. Nulla di ciò che definiamo inumano supera l’uomo.

Credo sia Hamas, secondo una sua accorta regia comunicativa e strategica, a scegliere giorno dopo giorno chi rientra, tra i duecento prigionieri che detiene, nel minuscolo manipolo dei liberati. Dopo quaranta giorni la parola ostaggio ha cominciato a espandersi nella mente di ognuno di loro, simile a una nube greve che in seguito ai capricci del vento e della densità, assume una forma di lettere.

I miliziani annunciano che Israele si è arreso alla trattativa. E svelano i nomi di coloro che, quel giorno, torneranno a casa: quattro cinque dieci, qualche bambino un po’ di donne gli anziani più sofferenti. Quando tornano li abbraccia una felicità enorme e nello stesso tempo vergognosa. Noi liberi! E gli altri ? Perché “la lotteria” non prevede che tutti i numeri, chi prima chi dopo, usciranno. Quattro giorni per farlo, non uno di più, e ogni giorno che passa la possibilità si riduce: una decisione del governo israeliano, diviso tra falchi e colombe, che non vuole offrire ad Hamas troppi vantaggi, l’ala più dura dei jihadisti che sceglie di far fallire tutto con un lancio di razzi o violando la tregua, un colono estremista che cancella ogni accordo compiendo una strage in Cisgiordania… e tutto si fermerebbe.

Subentra tra chi attende come una sensazione di soffocamento: forse sa che la tregua scadrà domani... Chi sarà l’ultimo minuscolo gruppo di liberati? Ci si smarrisce in una camera di speranze di cui si cerca inutilmente la porta.

In Israele è lo spasimo a vuoto dell’impotenza, l’Artide della solitudine dei parenti degli ostaggi che attendono, ogni giorno, la lista dei nomi di coloro che sono nell’elenco per questa tregua, che cammina su binari inflessibili e domani scadrà. Gli esclusi, o nostri ostaggi, lo meritavano forse e in nome di quale colpa? Fra speranze, voci, sospetti, rabbia per l’egoismo involontario degli arrivati prima, si precipita a poco a poco a poco nell’isteria.

E poi ci sono i soldati catturati. A cui non è concesso l’abbandono del cuore alla speranza, gioire per come il numero degli ostaggi, nonostante tutto, diminuisca. Per loro non vale. Per loro solo disinganni e tremori perché non hanno una sorte comune con gli altri. Pedina senza diritto alla pietà in una partita senza fine, ignari soggetti di un cieco carnefice.