A Gaza la guerra ci insegue: Israele ora minaccia Rafah e noi torniamo verso Nord
DEIR EL BALAH – Sono ore di attesa quelle che stiamo vivendo qui a Gaza. Tutti gli elementi ci fanno pensare che un nuovo attacco militare questa volta a Sud è davvero imminente. Israele lo ha detto perfino agli americani. Così stamattina presto mi sono preso il rischio di affrontare la strada costiera e di raggiungere il centro della Striscia dove in un edificio strapieno di gente si trova mia mamma, che come sapete è rimasta vedova una settimana fa e oggi era un giorno speciale di preghiera. Ma sono venuto fin qui anche perché ho ormai la certezza che saremo costretti a spostarci di nuovo. Se le operazioni militari si avvicineranno, perderemo il tetto sotto il quale qui a Rafah ci ammassiamo in ventiquattro. E piuttosto che finire chissà dove, quasi certamente in delle tende accampate sulla spiaggia in balia delle intemperie mi sto organizzando per capire se non sarà il caso di portare la mia famiglia al centro della Striscia da cui pure siamo stati costretti a fuggire. Ci stanno pensando in tanti, nonostante il pericolo ho visto molto movimento.
Rafah bombardata
Altra gente in queste ore sta risalendo verso il Nord. Io non ho ancora preso una decisione definitiva: e per ora comunque non posso spostarmi, perché le mie figlie sono deboli dopo essere state gravemente ammalate. Ma è questione di giorni forse di ore. Stanotte altri edifici di Rafah sono stati presi di mira: sono bombardamenti evidentemente mirati: colpiscono singoli edifici, dove probabilmente si nasconde qualcuno che l’esercito ha identificato, senza preoccuparsi se poi lì o negli immediati dintorni ci sono altre persone: familiari o vicini. E infatti la gente di qui, che all’inizio è stata davvero molto generosa nel mettere a disposizione le proprie case ai tanti evacuati a Sud, ora non danno più ospitalità a chi non conoscono bene. La generosità è diventata rischiosa.

A casa di mia madre
L’edificio dove sta mia mamma a Deir El Balah è una ex scuola, strapiena di gente: sono ammassati in trecento. Non mi piace l’idea di trasferirmici, ma l’alternativa della tenda è di gran lunga peggiore. I bagagli sono già pronti. In verità da quando siamo a Rafah non li abbiamo mai disfatti: ci cambiamo quei pochi abiti che siamo riusciti a portare con noi prendendoli direttamente dalla valigia, e una volta lavati ce li rimettiamo subito dentro, pronti a scappare. Ciascuno poi, che si tratti di grandi o di piccini, porta al collo o legato in vita l’essenziale: i documenti d’identità (e chi lo ha il passaporto). fondamentali se ci sarà data la possibilità di uscire da Gaza: ma anche per eventualmente identificarci e darci un nome sulla sepoltura se saremo uccisi. E poi alcune cose care: io ho delle foto di famiglia, l’orologio di mio padre, le chiavi della mia casa a Gaza City dove ora vive mia sorella con la sua famiglia che chissà se un giorno ritroverò. Una delle mie figlie, invece, ha in quel sacchetto una lettera della cuginetta ormai morta: era la sua migliore amica.

Il problema del cibo
Se saremo costretti a spostarci – e ho calcolato che in quattro mesi sarà l’ottava volta – si porrà anche il problema di come fare col cibo. Coi soldi guadagnati grazie al mio lavoro, uno dei pochi che è ancora possibile fare, siamo riusciti a procurarci un po’ di scorte, due sacchi di farina da 25 chili, fagioli, lenticchie, carne in scatola. Se saremo costretti a muoverci all’improvviso, finirà che perderemo anche quello e saremo costretti anche noi a mangiare erba bollita, come fanno già certe famiglie pur di mettere qualcosa di caldo nella pancia. Noi facciamo un unico pasto, una sorta di cena nel tardo pomeriggio: razionando ogni cosa perché è impossibile sapere quando potremo procurarcene altra ancora. Ma a volte penso che dovremmo cucinar tutto e darne anche ai vicini. Perché domani la nostra scorta potrebbe venir distrutta dalle bombe e oggi l’idea che del cibo vada sprecato non ci fa dormire la notte.

L’attesa è tutt’altro che quieta. Se a scuoterti dalle attività di sopravvivenza quotidiana o a svegliarti di notte non sono le bombe, comunque senti ovunque il brusio delle mille radioline accese giorno e notte. Le notizie che ci arrivano da lontano, dal Cairo, da Gerusalemme, da Washington, sono diventate la nostra realtà parallela. Qualcosa accade altrove, lontano dall’orrore che viviamo quaggiù. Non si arriva mai a niente. Ma almeno sappiamo che nel mondo si parla di noi. Che in qualche modo esistiamo al di fuori dalla gabbia che è diventata la Striscia.