Medici in Lombardia: il rompicapo dei numeri. Perché oggi sono pochi ma tra 10 anni saranno troppi
Un errore concentrarsi solo sul test di ammissione: va considerato il lungo percorso tra laurea e specialità. Quest’anno a Medicina sono entrati 19.000 studenti, quando saranno formati andranno in pensione 6.200 dottori: saldo favorevole. «Per fronteggiare la crisi dare più libertà agli specializzandi»
Il sedile scomodo della prima auto, le ore passate nel parcheggio vicino all’università, al buio, cercando di schiacciare almeno un pisolino. Ai primi bagliori del nuovo giorno, la gara per iscriversi all’appello d’esame. Quando si parla di «abolizione del numero chiuso a Medicina» Gianvincenzo Zuccotti ripensa a quelle notti di ansia e attesa vissute da studente alla fine degli anni Settanta, quando non era prevista nessuna selezione per le matricole. «Le aule erano super affollate, si faceva fatica a seguire le lezioni — ricorda il primario 67enne —. Gli esami avevano invece i posti contingentati: se non arrivavi in tempo, ti toccava aspettare l’appello successivo. E anche una volta laureati non era facile trovare lavoro».
Oggi il pediatra è prorettore della Statale di Milano con delega ai rapporti con il sistema sanitario. E l’esperienza vissuta da ragazzo lo porta a dire con convinzione che «eliminare il test d’ingresso non è la soluzione». Né per garantire ai giovani il diritto allo studio e a una formazione dignitosa, né tantomeno per rimediare alla carenza di medici che affligge tutta Italia, Milano compresa. «È vero, ci sono stati errori di programmazione in passato — riflette —. Ma allargare l’accesso a tutti in maniera indiscriminata vorrebbe dire cadere nell’errore contrario».
Studiare per 12 anni
Il ragionamento «mancano medici-togliamo il numero chiuso all’università» non funziona. Semplicemente perché la formazione dei camici bianchi ha una durata incomprimibile e non esiste la macchina del tempo. Dopo i sei anni (come minimo) per ottenere la laurea, la maggior parte dei ragazzi tenta il test per iscriversi a una scuola di specializzazione per diventare cardiologo, chirurgo, oculista. Significa altri cinque o sei anni di studio e pratica, prima di potersi dire «specializzati». Le matricole di oggi, quindi, saranno al lavoro solo tra il 2034 e il 2035. Ospedali e ambulatori pubblici e privati, invece, si contendono il personale a disposizione adesso.
In questo percorso, nel passato si sono creati due colli di bottiglia: i pochi posti in università e ancor di più le poche borse per le specializzazioni, che erano molto inferiori rispetto alle richieste. È una delle cause dell’attuale carenza di professionisti. Ora ad entrambi i livelli le disponibilità sono state notevolmente aumentate. Ma, come detto, serve del tempo perché le nuove leve completino il loro iter di studi ed entrino del mondo del lavoro.
I numeri in prospettiva
Alla luce di questa riflessione, davvero gli attuali 8.800 iscritti alle quattro facoltà di Medicina meneghine (Statale, Bicocca, San Raffaele e Humanitas) sono troppo pochi? No, anzi. I calcoli esatti li fa Massimo Minerva, specializzando atipico. Iscritto alla scuola di Igiene al San Raffaele, è anche pensionato. Alle spalle, una carriera da anestesista. Nel presente l’impegno nell’associazione Als, a difesa dei medici in formazione. «Il rapporto tra medici e popolazione peggiorerà nei prossimi anni, con un’ulteriore diminuzione di circa 22.300 unità da qui al 2028 — riflette —. Dal 2029 ci sarà un’inversione di tendenza, con il numero degli ingressi che comincerà a superare quello dei pensionamenti». Calcolando che l’anno scorso sono entrati a Medicina 19 mila giovani in tutta Italia e tenendo presente che una piccola quota farà altre scelte, si può immaginare che 16 mila dottori saranno in corsia nel 2034, a fronte di poco più di 6.200 uscite.
Conseguenze
È chiaro che, proseguendo su questa strada, si rischia di creare una pletora di dottori disoccupati e con una formazione di minor qualità. La stessa Unione degli universitari, che chiede l’abolizione del test d’ingresso, riconosce che all’aumento dei posti deve corrispondere un investimento in spazi e opportunità di tirocinio. Attenzione poi ai costi: tra spese sostenute dalle famiglie e dallo Stato, per formare uno specialista servono 250 mila euro.
Che fare, dunque? Als chiede che i ministeri facciano più attenzione alla programmazione, pensando anche a come incentivare le iscrizioni a quelle scuole (come Medicina d’urgenza) o facoltà di ambito sanitario (come Infermieristica) che riscuotono meno successo. Per rimediare alle carenze d’organico in ospedale, invece, si possono coinvolgere maggiormente gli specializzandi, assumendoli con il «decreto Calabria». Senza però caricarli di eccessive responsabilità. A tutela loro e dei pazienti.
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