Il Diario di Eshkol Nevo, terza puntata. A Be’eri il deserto, non più vociare

di Eshkol Nevo

Lo scrittore israeliano incontra i sopravvissuti del 7 ottobre nel caos della distruzione

Il Diario di Eshkol Nevo, terza puntata. A Be’eri il deserto, non più vociare

La prima puntata del Diario di Guerra � uscita sul Corriere il 7 novembre, la seconda il 3 dicembre, la terza il 27 dicembre 2023

Sono in treno, diretto al kibbutz Be’eri. Vicino al confine con Gaza. Perch� ci sto andando? Perch� me l’hanno proposto. Perch� dico di s� a quasi tutto, in questi mesi. Di certo a una richiesta proveniente dal kibbutz Be’eri, dove novantasette abitanti sono stati uccisi e rapiti da Hamas il 7 ottobre e dieci sono ancora tra gli ostaggi sequestrati. A marcire in un tunnel.

Ma non � solo questo. Lo sento. Qualcos’altro mi attira verso Be’eri. Cosa, esattamente? Spero di scoprirlo mentre sono in movimento.

Viaggiare in treno in Israele di solito � un’ottima occasione per un cacciatore di storie come me. Le persone parlano ad alta voce al cellulare e basta tenere aperte le orecchie: in diretta, litigi fra coniugi, dispute per un’eredit�, ricordi d’infanzia; in tempi normali � una vera miniera d’oro, ma non in giorni di guerra. In giorni di guerra il vagone � silenzioso. Ciascuno � immerso nelle proprie preoccupazioni. Il treno procede verso sud e si avvicina alle zone di combattimento, e il vagone a poco a poco si svuota. All’ultima fermata scendiamo solo io e due soldati.

Ad accogliermi trovo Sigal, che mi guider� nella visita. Di lei non so molto. Ma qualcosa nel modo in cui mi stringe la mano senza un sorriso mi allerta: serve cautela. Durante i primi minuti, mentre siamo in macchina, raccolgo frammenti di informazioni e cerco di ricostruire il quadro completo. Di capire in quale zona emotiva sono entrato. Menziona i suoi figli, ripetutamente, parlando del presente. Sono quattro. Due di loro le telefonano mentre viaggiamo e lei spiega dove ha lasciato il pranzo pronto, nell’appartamento provvisorio in cui si sono trasferiti. Man mano che ci avviciniamo a Be’eri, il nome Arik torna sempre pi� spesso nelle sue frasi. Finch� non lo dice esplicitamente: Arik, suo marito, era il comandante della squadra di sicurezza di Be’eri, l’hanno ucciso il 7 ottobre. Le porgo le mie condoglianze. Lei risponde che il suo spirito � con lei. Penso che intenda in senso metaforico, ma poi mi racconta che parla con il suo spirito ogni sera. Chi altro pu� consultare riguardo ai bambini? Annuisco. Non per educazione. Suona davvero convincente. Al cancello d’ingresso del kibbutz ci sorpassa un’auto e Sigal sussulta e fa cenno che si fermi. Era l’auto di Arik, mi spiega, � stata perforata da centinaia di proiettili ma l’hanno riparata e data all’uomo che l’ha sostituito. Sigal scende dall’auto. Il nuovo comandante della squadra di sicurezza scende dall’auto. Si abbracciano a lungo.

Nel centro del kibbutz, davanti a due case bruciate, ci aspetta un gruppo di fumettisti che si unir� alla visita. Mi spiegano che sono venuti a raccogliere informazioni per un fumetto sugli eroi del 7 ottobre. Sar� pubblicato in Francia. Ogni fumettista sceglier� un protagonista e racconter� la sua storia. L’attesa si dilunga perch� Sigal incontra un conoscente del kibbutz e abbraccia anche lui a lungo. Comincio a capire che gli abbracci saranno un tema ricorrente della giornata. Nel frattempo, i fumettisti si confrontano ad alta voce su come disegnare i terroristi di Hamas. Esseri umani? Mostri? Con la faccia coperta?

Ci incamminiamo per i sentieri del kibbutz. Ogni due case in piedi, una � distrutta. La devastazione ha proporzioni enormi. Bibliche. E ogni casa bruciata ha la sua storia. Qui vivevano due profughi scappati dalla guerra in Ucraina; a Be’eri avevano trovato un rifugio che gli pareva sicuro. Adesso sono prigionieri di Hamas. Qui abitava una donna che accompagnava palestinesi malati dal check point agli ospedali in Israele. Per Hamas, che l’ha assassinata, non era rilevante. Qui vive una novantaquattrenne che ha deciso di non nascondersi. Si � seduta su una sedia all’ingresso della sua casa e ha invitato gli uomini di Hamas, in arabo, a entrare a bere un caff� da lei. Quella donna, chiss� perch�, non l’hanno uccisa. Camminando per i sentieri del kibbutz incrociamo altri visitatori, accompagnati da diverse guide. I fumettisti si commuovono quando scoprono che una delle guide � Aya, tra le protagoniste del loro libro. La mattina del 7 ottobre � uscita in bicicletta, alcuni beduini scappati dal kibbutz l’anno avvisata di non rientrare ed � rimasta fra i cespugli insieme a loro per otto ore, senza sapere che nel frattempo i membri della sua famiglia venivano massacrati uno a uno. Parlando con i fumettisti, Aya menziona la CBT. Conosco bene la terapia cognitivo comportamentale, ho studiato psicologia. Incuriosito, le chiedo come l’ha aiutata la CBT mentre era accucciata tra i cespugli. Parla di meditazione, di mindfulness, di stare nel momento presente senza angosciarsi per il futuro. Di aprire un evento e poi chiuderlo. Vale a dire, dividere un tempo lungo in sottosezioni gestibili. � passata un’ora senza che li scoprissero tra i cespugli. Poi due. Poi tre.

Mi domando come quelle tecniche la aiutino, adesso, ad affrontare il lutto, se vivere nel qui e ora possa aiutare quando il qui e ora � tristezza. Ma non oso sondare oltre. Nel frattempo, il gruppo di Sigal e il gruppo di Aya si riuniscono a quello di Avida. Nel sabato nero ha perso moglie e figlio. E una gamba. Le due donne si chinano sulla sua sedia a rotelle per abbracciarlo e io penso che, se fossi un fumettista, sarebbe l’immagine che disegnerei alla fine di questa giornata. Proseguiamo con Sigal e passiamo davanti alla zona dove stavano gli animali del kibbutz, ma di animali non ce ne sono, nemmeno uno. Sono tutti scappati o li hanno fatti scappare. Poi arriviamo a casa di Adi. Suo marito leggeva i miei libri. Quando ha saputo che sarei venuto al kibbutz, Adi ha chiesto di incontrarmi a tu per tu. Lontano dal caos. Mi congedo temporaneamente dal gruppo e la seguo, mi conduce verso casa sua. Appena prima di entrare mi dice “scusa il disordine”. Come se fossi un ospite nella vita normale. Come se il suo soggiorno fosse leggermente disordinato. Il suo soggiorno � distrutto. Carbonizzato. Frantumato in mille pezzi. � rimasta nascosta nel rifugio insieme ai cinque figli ed � riuscita a salvarli mentre gli uomini di Hamas (come dovrei chiamarli? I terroristi di Hamas? Gli scellerati assassini di Hamas?) le devastavano la casa. Suo marito, mi racconta, le ha telefonato mentre all’esterno infuriava la battaglia. Oggi lei si rende conto che doveva essere gi� ferito e non gliel’aveva detto. Voleva dirmi addio, mi sussurra. Non gliel’ho permesso. Gli ho detto, perch� addio? andr� tutto bene. Ci rivediamo fra poco.

Sei il primo a cui lo racconto, mi dice. Non so cosa risponderle. Allora chiedo: come stanno i bambini, dopo tutto quello che � successo? Abbassa gli occhi e dice, mi crollano a turno. La cosa pi� difficile � quando mi crollano in due, insieme. E tu, chiedo, ti concedi di crollare? Ma figurati, ribatte. Devo tenere duro per loro.

Saliamo al secondo piano. Ci affacciamo sul giardino curatissimo – suo marito era il giardiniere di tutto il kibbutz – e anche sui visitatori che passano sotto di noi. Sono almeno quattro gruppi in contemporanea. Ognuno guidato da una persona del kibbutz.

� la loro maniera di affrontare la situazione, dice. Per me... parlare… � pi� difficile. Tacciamo un altro pochino insieme, poi mi riaccompagna dal gruppo di Sigal e dei fumettisti, ciascuno dei quali sembra, noto all’improvviso, uscito da un fumetto. Passiamo davanti ad altre case distrutte, fermandoci ogni qualche metro per lasciare a Sigal il tempo di abbracciare qualcuno che conosce. Solo verso la fine, come se avesse dovuto raccogliere il coraggio per tutte quelle ore, Sigal ci porta nel posto dove hanno ammazzato suo marito. Descrive la battaglia, fase dopo fase, in tutti i dettagli. L’ascoltiamo. Ha una voce diversa quando parla di lui. Uno dei fumettisti schizza. Provo a sbirciare il suo taccuino, ma non riesco a vedere niente. Poi tutti abbracciano tutti, prima di separarsi, e Aya – che abbiamo incontrato di nuovo, perch� in fondo il kibbutz � un posto piccolo piccolo – sorridendo prega i fumettisti di disegnarla per il libro �bionda, o per lo meno magra�.

Rimaniamo solo Sigal e io. Mi riaccompagna alla stazione del treno. All’improvviso sentiamo dei boati, esplosioni. Forti. I finestrini dell’automobile vibrano. Sono le nostre forze, mi tranquillizza. E io penso: in questo preciso momento dall’altra parte del confine ci sono case che bruciano. Prima o poi, quando tutto questo finir�, qualcuno andr� a visitare le macerie di Shejaiya o Khan Yunis e racconter� delle persone che ci vivevano. Chiedo a Sigal se pensa di tornare a vivere nel kibbutz. Dopo la guerra. Risponde s�, ovvio. � l’eredit� che Arik le ha lasciato. Le domando dove l’ha conosciuto e mi parla del loro primo appuntamento, disastroso. Per la prima volta dal mattino vedo il suo sorriso. Accompagnare i visitatori, aggiunge dopo una breve pausa, � il mio modo di immortalarlo. Di non lasciare che venga dimenticato.

Hai letto Alla ricerca di un significato della vita, di Viktor Frankl? mi chiede. Certo, rispondo. Anche se non ne parliamo pi�, � chiaro a entrambi perch� ha menzionato proprio in quel momento il libro in cui Frankl, sopravvissuto ad Auschwitz, sostiene che il desiderio pi� profondo dell’uomo � trovare un significato che lo aiuti a individuare lo scopo della propria vita. Una volta trovato quel significato, si pu� affrontare qualsiasi sofferenza e afflizione. Quando arriviamo alla stazione del treno ci abbracciamo di nuovo. Non si pu� senza un abbraccio. Poi ci separiamo. * Mi siedo nel vagone vuoto e rifletto sul fatto che anch’io, in questi mesi di guerra, mi sposto, sono in costante movimento, cerco parole di conforto per chi incontro, cerco dentro di me la speranza per poterla offrire ad altri, e scrivo, questo diario. Nient’altro. Scriverai un racconto su questo periodo? mi hanno chiesto questa settimana. Non � possibile inventare storie quando la realt� � cos� assordante, ho risposto. Cosa � possibile? Scrivere per ricordare l’umanit�, anche mentre tuonano i cannoni. Scrivere per ricordare che dietro i titoli dei giornali ci sono esseri umani. Il treno parte. La luce all’esterno si affievolisce. Cala la notte. L’ora giusta per trovare un senso, � questa.

(Traduzione di Raffaella Scardi)


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23 gennaio 2024 (modifica il 23 gennaio 2024 | 19:31)

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