Il giorno più lungo dell’Unione, oggi la cena dei leader sulle nomine con l’Italia (per la prima volta) ai margini: ecco cosa rischia il Paese se Meloni si autoesclude dall’accordo europeo

BRUXELLES – Il D-Day dell’Ue è arrivato. Ma sembra decisivo più per l’Italia che per il resto d’Europa. La partita delle nomine, i cosiddetti “top jobs”, si gioca da oggi pomeriggio a domani: i 27 capi di Stato e di governo devono designare la presidenza della Commissione, la presidenza del Consiglio europeo e l’Alto rappresentante. Il “pacchetto” è pronto: Ursula von der Leyen, Antonio Costa e Kaja Kallas. Una popolare, un socialista e una liberale. Sono tutti d’accordo tranne tre paesi: Italia, Ungheria e Slovacchia. Il nostro Paese, dunque, si ritrova in partenza di nuovo schiacciato sul fronte dei sovranisti di Visegrad. Emarginato in una ridotta minoritaria di destra che non decide e non incide nelle scelte strategiche dell’Unione. Autoescluso in un limbo che ci associa al fronte filorusso.

Ecco la vera posta in gioco: per la prima volta l’Italia è periferia d’Europa. E lo è per scelta del governo. Giorgia Meloni sta optando – almeno fino ad ora - per la linea di una arrogante auto-estraneazione. Ha confuso il ruolo istituzionale con quello politico. Ha sovrapposto il peso storico del nostro Paese, “fondatore” e terzo partner più “Grande”, con quello politico del suo partito. Ha mescolato il risultato elettorale domestico con quello più ampio degli altri 26 Stati. Un errore da matita rossa che espone l’Italia al pericolo drammatico dell’isolamento. Roma diventa una nuova Budapest o nuova Londra, quella che poi è uscita dall’Ue. Meloni come Orbán e Cameron.

Il punto che l’esecutivo di centrodestra si è rifiutato di cogliere fino ad oggi è che l’esito delle elezioni europee ha confermato la vecchia maggioranza composta da Popolari, socialisti e Liberali. Che la presunta onda di destra è stata un’ondina nella formazione concreta dei seggi nell’Europarlamento. Hanno confuso desideri e realtà. Soprattutto non hanno preso atto degli effettivi rapporti di forza associando il giusto peso del nostro Paese, che rimane “grande” chiunque sia a Palazzo Chigi, con la dimensione esclusivamente italiana del partito guidato dalla premier. Senza contare, peraltro, che la destra sovranista europea – fino ad ora divisa in due gruppi a Strasburgo - è sull’orlo di una scissione confusionaria che porterebbe a raddoppiare i gruppi e renderla ancor meno incisiva.

L’Italia ai margini dell’Unione, però, è un pericolo che nessuna maggioranza governativa si può permettere. Le conseguenze possono essere drammatiche in termini politici, istituzionali e economici. Politici perché l’irrilevanza determina sempre conseguenze se non altro sull’autorevolezza e quindi sulla capacità di scegliere. Istituzionali perché un “grande” Paese corre il pericolo di ottenere in termini di incarichi molto meno di quanto meriti: la richiesta di una vicepresidenza esecutiva della Commissione, ad esempio, appare molto in bilico. Economici perché i nostri conti pubblici rappresentano tuttora il ventre molle d’Europa. Siamo costantemente monitorati dai mercati e anche solo il sospetto di non avere il totale ombrello difensivo dell’Ue può generare paure e tensioni sul nostro debito pubblico. Senza contare che da settembre bisognerà stringere la cinghia e concordare con Bruxelles almeno 12 miliardi di tagli ogni anno. E nelle trattative si concorda meglio se si è forti o alleati con i più forti.

Giorgia Meloni ha ancora questi due giorni per fare marcia indietro. Le regole europee stabiliscono che per designare la presidenza della Commissione ed eleggere la presidenza del Consiglio europeo serve una maggioranza qualificata di 15 Stati membri che rappresentino almeno il 65 per cento della popolazione. Quorum ampiamente disponibile senza l’Italia. Ma stare dentro quella maggioranza è più utile a noi che agli altri. L’autoisolamento può forse galvanizzare una parte dell’elettorato militante di Fratelli d’Italia ma non produce risultati utili per il Paese. L’interesse nazionale non è tutelato in questo modo.

Poi, è vero, la partita soprattutto su Ursula von der Leyen, ha un secondo tempo: quello del Parlamento europeo. A metà luglio la sua designazione dovrà essere votata dagli eurodeputati. La coalizione-Ursula è ai limiti, molto rischiosa. Fratelli d’Italia dovrà decidere se dare il parere favorevole oppure confermare l’autoemarginazione. Sapendo che la presidente della Commissione non può ormai imboccare la strada di una vera “collaborazione” politica con Ecr: perderebbe i voti determinanti dei socialisti, oltre 130. E che comunque sull’altra sponda il gruppo dei Verdi è pronto al dialogo. Fdi dovrà insomma accontentarsi di un “ringraziamento gratuito”.

L’errore di sovrapporre ruolo istituzionale e ruolo politico sta dunque pesando. E sta sospingendo l’Italia in un cul de sac. Evitabile solo con una resipiscenza dell’ultima ora.