La spirale degli estremismi, quando l’avversario è un nemico
È sbagliato parlare di «virus americano». Si dimentica così che violenza e politica vengono gemellate nel pensiero e nella pratica degli anarchici russi e italiani nell’Ottocento e nel primo Novecento
Violenza e politica: è irresistibile la tentazione di parlare di «virus americano», magari attribuendone la recrudescenza proprio a Donald Trump. Da Abraham Lincoln ai fratelli Kennedy e Martin Luther King, da Ronald Reagan all’attentato di sabato sera in Pennsylvania, la serie è lunga. Però etichette e semplificazioni sono pericolose.
Si dimentica così che violenza e politica vengono gemellate nel pensiero e nella pratica degli anarchici russi e italiani nell’Ottocento e nel primo Novecento.
I regicidi non nascono tra i cowboy del Far West, l’Arciduca di Sarajevo non viene ucciso da uno yankee. Poi gli anni Sessanta del secolo scorso videro sangue versato da una sponda all’altra dell’Atlantico, in nome di fanatismi rivoluzionari o reazionari. Le Black Panthers di Oakland o i suprematisti bianchi del profondo Sud degli Stati Uniti avevano come riflesso speculare le Brigate Rosse e la banda Baader-Meinhof, le bombe neofasciste in Italia, il terrorismo irlandese o basco.
Difficile dare sempre la colpa alla cosidetta «americanizzazione». La tentazione di attribuire all’America una perversione unica al mondo — vedi la piaga delle armi — ci fa trascurare che lo svedese Olof Palme nel 1986 o il giapponese Shinzo Abe nel 2022 furono assassinati in due Paesi pacifisti e disarmati. In ogni caso il trumpismo c’entra poco nell’aizzare opposti fanatismi, visto che The Donald era un ragazzino negli anni Sessanta, di gran lunga i più cruenti della storia moderna (in barba ai ricordi epurati sui «figli dei fiori» e la Summer of Love).
Violenza e politica: l’altra tentazione irresistibile e già all’opera, è demonizzare uno solo degli estremismi. Infame fu il 6 gennaio 2021 quando dei fan di Trump assaltarono il Congresso e il mondo intero tremò. Violenza allo stato puro, contro le istituzioni, con un avallo autorevolissimo. Ma molti repubblicani vissero con analogo sgomento l’estate del 2020: quando l’assassinio dell’afroamericano George Floyd fu il pretesto per eccessi selvaggi, con palazzi governativi incendiati, forze dell’ordine aggredite, quartieri saccheggiati in molte città. L’anti-razzismo o anti-fascismo (usurpato da frange di ultrà con la sigla Antifa) diventava garanzia d’impunità. La tentazione manichea di vedere un solo estremismo è scattata di nuovo ieri. Tra le folli teorie del complotto si segnalano quelle che attribuiscono a Trump l’attentato contro se stesso, per vincere le elezioni (però, che mira, farsi beccare solo l’orecchio). Oppure la fretta di stabilire che l’aspirante assassino era lui stesso trumpiano perché «registrato repubblicano». Precisazione: quando in America diventi cittadino o maggiorenne, all’atto di iscriverti nelle liste degli elettori devi dichiararti democratico o repubblicano o indipendente; è una formalità burocratica a fini statistici, non comporta alcuna militanza e neppure vera appartenenza.
Violenza e politica, è un cocktail micidiale che pochi cercano di depotenziare abbassando i toni e ostracizzando gli opposti estremismi. La memoria è selettiva, anziché essere equanime. Fra gli antefatti più recenti c’è l’aggressione in casa della ex presidente democratica della Camera Nancy Pelosi (il marito rischiò la vita). Ma nello stesso passato recente c’è un attentato contro il deputato repubblicano Scalise e il giudice conservatore della Corte suprema Kavanaugh. Proprio Scalise ieri ha ribaltato il «processo al 6 gennaio» usato dalla sinistra, con questa dichiarazione: «I democratici alimentano una crisi isterica quando sostengono che la rielezione di Trump sarebbe la fine della democrazia in America, in passato abbiamo già visto qualche pazzo estremista passare all’azione per effetto di questo linguaggio violento». J.D.Vance, che è nella rosa dei candidati vicepresidenti di Trump, ha detto: «Questo attentato non è un incidente isolato. La premessa centrale nella campagna di Biden è che un dittatore fascista come Trump va fermato ad ogni costo».
Il rimpallo di accuse andrà avanti fino al 5 novembre. Forse potrebbe depotenziare questa spirale una svolta in casa Biden. Se il presidente accetta di ritirarsi, se il suo partito organizza tra un mese a Chicago una convention aperta, se da un confronto trasparente e competitivo emerge un candidato moderato (tipo Gretchen Whitmer, governatrice del Michigan): ci sarà una chance di arrestare il moto infernale della polarizzazione ideologica che eccita le ali estreme.
In mancanza di questa svolta, l’attentato in Pennsylvania non sposterà voti da una casella all’altra (evento assai raro), ma può mobilitare e galvanizzare la base repubblicana. Il loro uomo, colpito a sangue, si è risollevato, ha teso il pugno, ha promesso di continuare a lottare. Uno spettacolo di grinta in netto contrasto con il decadimento del vecchio Joe.