“Il mio Omri rapito con il ricatto di uccidere un ragazzino. Hamas ci dica almeno come stanno ora gli ostaggi a Gaza”

ROMA – Nella medaglia al collo di Dani Miran c’è incisa una casa con dentro un cuore: “Bring Omri home”. Da sei mesi suo figlio Omri è ostaggio di Hamas. “Ne ho data una anche al Papa”, dice. Ha 78 anni portati benissimo, nonostante la ferita in quel cuore rubato che per ora non si può rimarginare.

Omri, 46 anni, viveva nel Kibbutz di Nahal Oz, vicinissimo alla Striscia di Gaza, insieme alla moglie Lishay e alle due bimbe, Roni e Alma. Dani è venuto a Roma, accompagnando la visita del ministro degli Esteri Israel Katz insieme ai parenti di altri 7 ostaggi, per implorare di non dimenticare, una missione che continuano senza sosta chiedendo “pressioni” per convincere Hamas a liberarli. “Abito nel nord della Galilea ma da ottobre sono a Tel Aviv: faccio il possibile e prego perché lo riportino a casa”, racconta.

Come è stato rapito Omri?

“Alma aveva sei mesi, Roni due anni e due mesi. Vivevano a 5 ore di distanza da me, ma da casa loro a Gaza ci sono 700 metri: per percorrerli bastano quattro minuti. Mio figlio non è un militare: è stato rapito come civile. Provate a immaginare di essere a casa vostra, è da poco passata l'alba e vi state mettendo su un caffè mentre preparate il biberon per le bambine. All'improvviso il mondo intorno a voi diventa sangue, uccisioni, violenze orribili”.

Quando gli ha parlato l’ultima volta?

“Quella mattina, il 7 ottobre. Era scattato il codice rosso, l'ho chiamato al cellulare: cosa è successo, Omri? Niente, papà, mi ha risposto, non preoccuparti, è il solito tiro di razzi: ne hanno sparati un bel po’, li abbiamo visti passare dalla finestra. Così mi sono tranquillizzato, gli ho persino augurato buona giornata”.

Purtroppo non lo è stata. Se la sente di raccontarla?

“Alla tv, più tardi, ho visto che il kibbutz era sotto attacco, sparavano a qualunque cosa si muovesse. Quando si è sparsa la notizia ho preso il telefono e l'ho chiamato. Mi ha risposto: ‘Ci sono terroristi ovunque, papà. Lishay e le bimbe sono nella stanza sicura, io ora esco a prendere i coltelli: mi raccomando non mi chiamare’. L’ultimo messaggio gliel’ho spedito alle 6:40. ‘Sono preoccupato, Omri, rispondimi’ Non lo ha fatto”.

Immaginiamo la sua disperazione…

“Non credo si possa immaginare un incubo peggiore. Più tardi mi è arrivato un messaggio della mia consuocera, diceva che era stato rapito ma la moglie e le bimbe per fortuna erano salve e libere”.

Cosa le ha raccontato Lishay?

“Che intorno alle 11 un ragazzino, un vicino di casa, ha bussato alla porta della stanza sicura e li ha implorati: ‘Aprite, se no mi ammazzano’. Loro lo hanno fatto, e i terroristi li hanno portati nella casa dei vicini. Lì, a terra, c'era il corpo di una ragazza di diciott'anni: era stata uccisa. I suoi genitori erano seduti accanto. Hanno fatto sedere anche Omri, Lishay e le bimbe. Poi agli uomini, a Omri e al vicino, hanno detto ‘ora venite con noi o vi uccidiamo tutti’. Quando è andato via, le bambine chiamavano ‘papà’ e Lishay gli ha urlato ‘ti amo, prenditi cura di te e non fare l'eroe’. È l'ultima volta che lo hanno visto. Due mesi dopo Roni ha chiesto a Lishay: ‘Mamma, ma Omri è ancora il mio papà?’.

Cosa pensa della reazione del vostro governo? Questa guerra a Gaza è la politica giusta per riportare a casa suo figlio?

“Non siamo politici. Credo che il governo faccia tutto il possibile per riportare a casa gli ostaggi. Ci sono 8 milioni di ebrei in Israele circondati da più di un miliardo di musulmani, eppure il mondo parla continuamente della necessità di aiutare i palestinesi. Ma mio figlio non merita di essere aiutato? Quanti sono veramente i rapiti in ostaggio? Come li trattano? Come stanno? Perché il mondo non pretende che Hamas risponda a queste domande? La vede la mia barba bianca? Non mi rado da sei mesi perché so che Omri non può farlo, in prigionia. Lo faremo insieme quando finalmente tornerà a casa”.

Il mondo è scioccato dal 7 ottobre ma anche dalla reazione israeliana.

“Ho visto molte guerre, quella che ricordo meglio è quella del 1967. Ci attaccarono dall’Egitto e dalla Siria, il rapporto di forze era 10 volte a loro favore e il nostro ministro degli Esteri girava il mondo per supplicare che ci aiutassero: salvateci o ci distruggeranno, diceva. Sono arrivati volontari da tutto il mondo. Quando eravamo deboli, il mondo ci voleva aiutare; ma quando ci difendiamo, abbiamo sempre tutti contro”.

Ci sono trattative in corso, e sembra ci siano passi avanti. È ottimista?

“In questi sei mesi abbiamo sentito dire tante volte che tra poco gli ostaggi saranno liberi. Le famiglie che credevano in un accordo imminente hanno il cuore distrutto più volte. No, io non mi fido più. Omri è partito sano e salvo e dopo 51 giorni, quando sono tornati i primi ostaggi liberati, uno di loro ha detto che lo ha visto in prigionia. Era vivo. Lo tenevano in una casa, non nei sotterranei. Ma da allora non so più nulla, se non che i prigionieri non possono lavarsi né radersi, e che soffrono per diverse malattie. Nemmeno l'esercito sa dove sia o se sia ancora vivo”.

Suo figlio viveva vicinissimo a Gaza, dove più di due milioni di palestinesi sopravvivevano frustrati e inferociti perché sottoposti a un blocco da 17 anni. Ne parlavate?

“Certo. Un annetto fa gli avevo detto: ‘Omri, ma che ci fai qui? Non lo vedi il muro? Perché non venite vicino a me, in Galilea. Ti do un po di terreno accanto a casa mia e ti costruisci la tua casa, una casa normale’. Ma lui mi ha risposto ‘guarda papà che qui ho già una casa e una vita normali. Non sai di quali armi e strumenti è dotato il nostro esercito, hanno tecnologie avanzatissime e siamo assolutamente al sicuro. Anzi, qui è più sicuro che lì da te perché non tirano missili’”.

Parlavate anche della condizione dei palestinesi di Gaza?

“Abbiamo sempre parlato anche di questo, sì. Noi israeliani li abbiamo sempre aiutati: a Gaza non hanno lavoro, lo stipendio di una giornata è di 50 sicli, ma vengono a lavorare da noi e lo stipendio che ricevono in Israele va normalmente da 350 a 600 sicli al giorno. Ogni giorno entrano in Israele in 20.000. Molti di noi che abitano vicino al confine andavano con la loro auto a prendere da Gaza i palestinesi che avevano bisogno di aiuto medico o di una visita. Omri nel kibbutz faceva il giardiniere e ha dato lavoro a molti palestinesi”.

Come pensa che possa aiutarvi raccontare il vostro dolore?

“Fare pressione è importantissimo: non dobbiamo lasciare che ci si dimentichi degli ostaggi. Il nostro inno nazionale e Ha Tikvah, la speranza: vogliamo che tornino i vivi, e che tornino a casa anche i corpi. E vogliamo che tornino subito le ragazze: i loro parenti sono preoccupatissimi, temono che tornino incinta”.

Lei, Dani, come sta?

“Ogni giorno, tirare avanti è una sfida. Prendo calmanti e farmaci per dormire, ma non c'è niente da fare: non dormo. Nel cuore c’è sempre il mio Omri bambino, che ne combinava di tutti i colori. Mi manca il mio Omri e i suoi scherzi continui”.

Lishay e le bimbe dove vivono?

“Al Sud, in un Kibbutz in cui convivono ortodossi e laici: una condizione poco frequente in Israele. Lishay combatte tutti giorni, lo fa ovunque, senza fermarsi un istante. Vive facendo appelli per riportare a casa gli ostaggi. E io ogni giorno che passa le voglio più bene”.