Probabilmente qualcuno (quorum nos, lo confessiamo) spalancher� gli occhi incredulo, ma sono gi� passati trent’anni dalla presentazione in anteprima mondiale al Sundance Film Festival (ebbe luogo il 20 gennaio 1994: il film usc� poi nelle sale statunitensi in aprile, in quelle inglesi a maggio e da noi solo a ottobre inoltrato) di Quattro matrimoni e un funerale/Four Weddings and a Funeral di Mike Newell, la supercommedia romantica che proiett� definitivamente nello star system internazionale (e nell’immaginario dei sex symbol di celluloide) il trentaquattrenne (all’epoca) Hugh Grant, peraltro gi� messosi prepotentemente in luce da qualche anno grazie al successo europeo di “Luna di fiele/Lunes de fiel-Bitter Moon” (1992) di Roman Polanski e ai ruoli centrali in ben due film del britannico James Ivory (“Maurice”, 1987, e “Quel che resta del giorno/The Remains of the Day”, 1993). Fu anche il primo, vero e travolgente successo al botteghino (leggi: il film che ai tempi registr� il maggior incasso della storia del cinema britannico, con quasi 250 milioni di dollari dell’epoca in cassa) dello sfuggente Mike Newell, regista inglese impersonale bench� di solido mestiere che aveva esordito con un rispettabile horror (“Alla 39a eclisse/The Awakening”, 1979), che dalle nostre parti aveva ottenuto un lusinghiero riscontro con il dimenticato “Ballando con uno sconosciuto/Dance With a Stranger”, 1985) e che firmer� poi tanti altri “prodotti” commerciali su commissione pi� o meno fortunati (come l’ottimo “Donnie Brasco”, 1997; il trionfale “Harry Potter e il calice di fuoco/Harry Potter and the Goblet of Fire”, 2005; o l’immediatamente successivo flop da Gabriel Garc�a M�rquez “L’amore ai tempi del colera/Love in the Time of Cholera”, 2007).
«Quattro matrimoni e un funerale», la supercommedia romantica che lanciò Hugh Grant compie 30 anni
Un’alternanza di registri e sentimenti che porta a possibilit� multiple d’immedesimazione, nonch� nella canonica e molto “british” capacit� caustica

Posto che la confezione del film non si discostava di molto da quella di una qualsiasi comp�ta commedia anglosassone degli anni Novanta, la maggior parte del suo merito � da ricercarsi nella perizia di scrittura dello sceneggiatore Richard Curtis (poco pi� che esordiente al cinema, ma gi� fortunatissimo artefice televisivo della saga di Mr. Bean con il suo sodale di lungo corso Rowan Atkinson), specialista nel navigare abilmente (e con encomiabile furbizia) nella complessit� delle relazioni romantiche contemporanee e dell’imprevedibilit� dei moti del cuore e della vita, mixando situazioni comiche tradizionali a spezzature talora accortamente toccanti. Dopo “Quattro matrimoni e un funerale”, Curtis sar� infatti dapprima autore del copione di un caposaldo amatissimo dallo stesso pubblico “di riferimento” come “Notting Hill” (1999, di Roger Michell), poi dell’adattamento di “Il diario di Bridget Jones” (2001) e quindi naturalmente destinato a compiere il passaggio dietro la macchina da presa con un’altra commedia corale di pari impatto (“Love Actually – L’amore davvero”, 2003). La storia del film � arcinota. Il giovane single sbadato e gaffeur Charles (Hugh Grant), assiduo frequentatore di matrimoni altrui, � testimone di nozze nel Somerset degli amici Angus (Timothy Walker) e Laura (Sara Crowe). Alla cerimonia, dove lo accompagnano il fratello sordo David (David Bower), la coinquilina Rossella (Charlotte Coleman), la sua pretendente segreta e snob Fiona (Kristin Scott-Thomas) col fratello Thomas (James Fleet) e la coppia gay composta da Gareth (Simon Callow) e Matthew (John Hannah), Charles perde la testa per l’invitata americana Carrie (Andie McDowell), che dopo una notte d’amore, prima di ripartire per gli Usa, gli chiede semiseriamente di farle una proposta di matrimonio. La reincontrer� tre mesi dopo, stavolta al matrimonio di Bernard (David Haigh) e Lydia (Sophie Thompson) per cui le nozze precedenti sono state galeotte; ma stavolta la ragazza si presenter� in compagnia di un fidanzato, Hamish (Corin Redgrave).
Dopo essersi ritrovato non senza imbarazzi a un tavolo composto quasi esclusivamente da sue ex tra le quali la tignosa Henrietta (Anna Chancellor), Charles ha l’occasione di passare un’altra notte di fuoco con Carrie senza apparenti conseguenze. Il mese successivo, tuttavia, riceve un nuovo invito di nozze: questa volta proprio quelle della ragazza. Durante il matrimonio di Carrie e Hamish, Fiona si rende conto dei sentimenti che Charles prova per la sposa e invano cerca di dichiarargli i suoi, prima che l’evento sia funestato dall’inaspettata morte per infarto di Gareth, al funerale del quale Charles e Carrie si incontreranno di nuovo fugacemente. Il quarto e ultimo matrimonio, inaspettatamente, si riveler� essere di l� a quasi un anno quello tra Charles ed Henrietta, dove poco prima della cerimonia Carrie informer� l’uomo di essersi separata, mandandolo definitivamente in crisi e aprendo a una serie di “prevedibili imprevisti” al termine dei quali l’amore “vero” potr� definitivamente trionfare. Sospeso in una quasi-classicit� dalle caratteristiche (col senno di poi) quasi atemporali, “Quattro matrimoni e un funerale” � una sorta di favola sentimentale in ossequio consapevole di stereotipie caratteriali, con squarci di (blanda) satira sociale, improvvise e cronometriche accensioni da pochade, momenti un po’ troppo programmaticamente lacrimogeni (come la lettura da parte di Matthew di una toccante poesia di W.H. Auden in memoria del compagno), meditazioni retoriche sull’inanit� della ricerca dell’amore e sulla necessit� effettiva di coronarlo con una unione ufficiale; ma anche un prodigio di casting e (quasi) un saggio di sceneggiatura sulle possibilit� di ripetizione/variazione reiterata di una situazione di base sempre identica, spesso sostenuto da coloriti tormentoni come l’indimenticabile epiteto “faccia di chiulo” con cui Fiona canzona Henrietta (che per� � una trovata epocale degli adattatori italiani; in originale �, meno efficacemente, “duck face”) e strizzate d’occhio puramente comiche come i pasticci del sacerdote Rowan Atkinson (ovvero Mr.Bean: una specie di naturale per quanto proficua imposizione di Curtis del suo popolarissimo compare televisivo).
E in questa forse apparentemente disordinata, ma in realt� “scientifica” alternanza di registri, sentimenti e possibilit� multiple d’immedesimazione, nonch� nella canonica e molto “british” capacit� di esposizione/sconvolgimento idealmente caustici delle norme sociali accostata per contrasto alla meccanica pi� perbenista (e talora zuccherosa) della Hollywood dei tempi d’oro, risiede il segreto “sintetico” della sua efficacia. Ebbe due nomination all’Oscar 1995: miglior film (troppa grazia) e, pi� sensatamente, migliore sceneggiatura originale. Ma Curtis giocava contro pezzi di artiglieria cos� pesante (Woody Allen per “Pallottole su Broadway”, Peter Jackson per “Creature del cielo”, Krzysztof Kieślowski per “Tre colori – Film Rosso” e soprattutto Quentin Tarantino, poi vincitore dell’unica statuetta andata al rivoluzionario “Pulp Fiction”) da non avere la bench� minima possibilit� di trasformare la sua candidatura.
Corriere della Sera � anche su Whatsapp. � sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati.
20 gennaio 2024 (modifica il 20 gennaio 2024 | 07:44)
© RIPRODUZIONE RISERVATA