Delitto di Giulia Cecchettin. Prima notte in carcere a Verona per Filippo: “Fatemi vedere i miei genitori”
VERONA — Il carcere è quello di Montorio, più di cinquecento detenuti per 350 posti in una frazione a nord di Verona. Lassù ci sono i Monti Lessini e qui, dopo una stradina in discesa, alle 14,30 il cancello si apre a un corteo di macchine dei Carabinieri. Un passante capisce ed emette la sua sentenza: «Maledetto».
A bordo di una Lancia scura c’è Filippo Turetta, 22 anni a dicembre, accusato di aver ucciso «con ferocia inaudita» l’ex fidanzata Giulia Cecchettin. Tre ore prima era atterrato a Venezia dalla Germania su un Falcon 900 dell’Aeronautica militare, scortato dalle forze di polizia. I tedeschi lo avevano consegnato alle nostre divise con le manette ai polsi e ai piedi.
Chi lo vede lo descrive silenzioso, rassegnato, dimesso. Nessuno lo vede piangere. Ma un agente nota il suo sguardo cambiare quando per la prima volta sente il rumore delle pesanti porte di ferro che si chiudono dietro di lui tra uno sferragliare di chiavi. Ascolta molto, fa poche domande. Tra le prime, questa: «Quando posso vedere i miei genitori?».
Ora cinque agenti della penitenziaria lo accompagnano al primo girone, quello delle perquisizioni. Via l’elastico della tuta, via i lacci delle scarpe. Sono pericolosi prima di tutto per lui, che appena fermato disse: «Ho ucciso la mia ragazza, volevo ammazzarmi ma non ho avuto il coraggio».
Gli chiedono: hai fame? Non mangia, porterà in cella il cestino con i cracker, la crostata e un succo. Gli danno biancheria, vestiti, ciabatte, shampoo, bagnoschiuma, spazzolino, il necessario in attesa che i genitori gli portino il resto. «Quando posso vederli?», chiede, mentre gli operatori gli spiegano le regole sulle visite, i colloqui, le telefonate e «se vuoi puoi andare dal cappellano».
Chissà se li nota i manifesti del Comune di Verona che nelle ore precedenti erano stati attaccati in più sezioni in occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, con la frase a caratteri cubitali per ricordare che questo tema «riguarda anche te».
Turetta è un detenuto classificato «a grande sorveglianza». Nessuno può mai perderlo di vista. Potrebbe far male a se stesso o potrebbero pensarci gli altri per le regole non scritte di chi è dentro. E ora si apre un altro cancello, e si richiude facendo quel rumore. Reparto di infermeria, colloquio col medico e con lo psichiatra.
Turetta resta qui almeno per i prossimi tre giorni, in un’area isolata dagli altri detenuti, in cella con un compagno che è dentro per reati altrettanto gravi. La sua casa è una piccola stanza: due letti, un tavolo, due sgabelli, un mobiletto, il bagno, niente tv, una finestrella con le grate. Il cibo viene portato in cella. Colazione alle sette e mezza, pranzo alle dodici, cena alle diciotto.
L’ora d’aria in un cortiletto ma non quando ci sono i reclusi “comuni”. «Grande sorveglianza» significa che servirà tanta attenzione da parte degli agenti, dei medici, degli infermieri, e anche la scelta di farlo stare con un “concellino” è dettata dai motivi di sicurezza. Fra qualche giorno può essere trasferito in un reparto protetto, dove vivono sessanta detenuti che devono avere vite separate dalle altre.
Il professor Giovanni Caruso, avvocato di fiducia di Filippo (ormai l’unico, visto che il legale d’ufficio Emanuele Compagno ha rinunciato all’incarico) ieri entra in carcere prima dell’arrivo dell’indagato e va via quando ormai è buio. Dice: «È molto provato, disorientato, anche se con lui sono riuscito ad avere un’interlocuzione accettabilmente comprensibile ed è in condizioni di salute accettabili».
Martedì prossimo la giudice Benedetta Vitolo lo interrogherà. Turetta potrà scegliere di restare in silenzio oppure decidere di rispondere alle domande della gip che nell’ordinanza di arresto ha descritto la «ferocia inaudita», la «manifesta disumanità» che ha portato alla morte di Giulia, colpita a sangue a centocinquanta passi da casa, aggredita nel buio di una zona industriale, abbandonata tra le rocce sulla strada per il lago di Barcis.
Lo studente potrebbe rischiare l’ergastolo se gli venisse contestata la premeditazione. Dopo il suo arrivo, dalla Germania è attesa ora la sua Fiat Grande punto nera, un pezzo importante nel mosaico del femminicidio.