Chen Goldstein-Almog: “Ho scoperto che mia figlia era morta mentre Hamas mi teneva prigioniera”
In bilico fra trauma e testimonianza, alcuni degli ostaggi israeliani liberati da Gaza iniziano a rilasciare le prime interviste, in ebraico, ai media israeliani. Ran Shimoni, per l’edizione locale di Haaretz, ha accompagnato al cimitero del kibbutz Shefayim, sulla costa a metà strada tra Tel Aviv e Netanya, Chen Goldstein-Almog, 48 anni, e la figlia Agam (17), uscite dall’incubo di Hamas il 26 novembre insieme con gli altri figli Gal (11) e Tal (9). Lì sono sepolti il padre dei ragazzi, Nadav, e la sorella maggiore Yam, che il 7 ottobre sono stati assassinati davanti ai loro occhi.
Finora il cimitero di Shefayim era loro sconosciuto. La famiglia ha sempre vissuto a Kfar Aza, una delle comunità nel sud di Israele, a ridosso della Striscia di Gaza, fra le più massacrate nel pogrom pianificato da Hamas. Ma i kibbutz hanno tutti qualcosa in comune. L’atmosfera bucolica, le casette a schiera indipendenti, i viali alberati, gli spazi comuni come la “hadar ochel” dove si consumano i pasti tutti insieme e i giardini dove giocano i bambini.
Shefayim, per gli sfollati di Kfar Aza, ha assunto un’aria ancora più famigliare da quando sulle tombe del suo cimitero sono scolpiti i nomi dei parenti, degli amici, dei vicini di casa, delle 62 persone massacrate e uccise dai terroristi. «Devo costantemente ricordare a me stessa che tutte queste persone non sono più con noi - ha detto Chen Goldstein al giornalista - e mi chiedo perché: perché hanno ucciso questa donna anziana, o quella signora adorabile, o tutta questa famiglia».
Madre e figlia, osserva Shimoni, «sono diventate eterne compagne in tutto ciò che hanno vissuto durante la prigionia di Hamas». Nella loro testimonianza raccolta da Haaretz parlano dell’esperienza vissuta sulla loro pelle, ma anche delle confidenze scambiate con gli altri prigionieri, talvolta incrociati nei tunnel mentre i carcerieri spostavano i gruppi da un nascondiglio a un altro.
Alla giovane Agam, portata a Gaza con la madre sull’auto di famiglia rubata dai terroristi, c’è voluto un po’ di tempo prima di digerire e comprendere la portata di cosa stava accadendo. Poi, la paura delle torture l’ha assalita. Una paura che non l’ha mai più abbandonata. Nemmeno oggi che è tornata tra persone amiche. L’esperienza delle due israeliane è stata, detto da loro, meno dura rispetto a quella di chi, ad esempio, ha testimoniato di aver subito abusi sessuali. C’è stata l’incertezza, la fame, il pericolo di morire sotto i bombardamenti israeliani. Ma dal momento in cui la barriera tra Gaza e Israele è stata sfondata, e soprattutto dopo che i cani sciolti sono tornati nella Striscia con il bottino umano, è sembrato mancare uno schema preciso su come condurre la prigionia per così tanto tempo.
E poi c’è stato il lutto da elaborare. Chen, che nella vita era assistente sociale, ha appreso solo in prigionia che il marito Nadav e la figlia maggiore Yam - «la ragazza che mi ha trasformato in madre», ha detto a Haaretz - erano stati uccisi. È successo in quelli che ha definito i «giorni buoni, durante le trattative», quando i carcerieri hanno permesso loro di ascoltare la radio in ebraico.