Dalla Turchia alla Brexit, cosa dicono le città
Dal fondo del populismo nazionalista, esaltato dallo sconvolgimento degli equilibri mondiali con la guerra in Ucraina, che consegna a Recep Tayyip Erdogan un ruolo di potenza politica, militare e diplomatica all’altezza delle sue ambizioni eurasiatiche, affiora dopo due decenni il voto laico, democratico e ribelle che consegna Istanbul, Ankara, Smirne, Bursa e Adana all’opposizione socialdemocratica, ipotecando il futuro della Turchia.
Una scossa per il Paese e anche per il Raìs, che ha riconosciuto la sconfitta rendendo omaggio alla libera scelta con cui gli elettori hanno bocciato i candidati sindaci dell’Akp islamo-conservatore, «dopo diciotto anni in cui avevamo quasi sempre vinto».
Il voto sembra certificare l’usura di questo sterminato esercizio del potere all’ombra di un’inflazione al 67 per cento, e le prime immagini notturne dopo i risultati mettono in risalto anche la distanza generazionale tra Erdogan e il sindaco riconfermato di Istanbul e probabile nuovo capo dell’opposizione, Ekrem Imamoglu, che ha subito preso le distanze dal neo-autoritarismo populista: «Siamo innamorati della democrazia, della pace e della tranquillità».
In gioco c’erano soltanto sindaci — si potrebbe dire — municipi e localismi, la vera sfida politica è rimandata alle consultazioni nazionali, e il vento può rapidamente cambiare. Tuttavia sarebbe sbagliato non solo per Erdogan ma per l’intera Europa sottovalutare il significato che arriva dalle capitali storiche della Turchia: proprio perché viene da quei soggetti parziali ma sempre più vitali e sensibili della vicenda democratica che sono le città.
Istanbul, Ankara e gli altri grandi centri con il voto si stanno infatti quasi autonomizzando dal processo politico nazionale proponendosi come protagonisti politici collettivi, soggetti attivi d’opposizione, come se si attribuissero nei fatti il ruolo di avanguardie di una nuova responsabilità politica che si contrappone al nazional-populismo nella sua pretesa di rappresentare la cifra universale dell’epoca, sintesi ed espressione dello spirito dei tempi.
E nello stesso tempo i partiti, i governi e le istituzioni riscoprono il serbatoio di politica “naturale”, legata al consumo quotidiano della democrazia minuta, materiale, delle piccole cose, che le città custodiscono e da cui possono attingere, chiudendo il cerchio perpetuo della civiltà europea intorno all’agorà che l’ha generata.
È una sopravvalutazione dello spazio politico urbano, dei limiti naturali in cui è confinata l’istituzione democratica di base, cioè la città? In realtà la soggettività politica dei grandi centri è il fenomeno più trasversale e universale che abbiamo davanti agli occhi, almeno da quando la Brexit non ha semplicemente lacerato un Paese, ma ha portato alla luce la nuova dislocazione geopolitica degli interessi, delle scelte, addirittura delle classi divaricando le grandi città dalla vera periferia del Paese, non nella marginalità urbana ma nella dispersione e nell’isolamento dei piccoli centri, dove l’individuo si sente meno cittadino perché più esposto all’urto della crisi, non protetto da una politica lontana, dimenticato, anzi escluso.
Abbiamo toccato con mano la distanza addirittura antropologica tra le popolazioni metropolitane e quelle dei piccoli paesi rurali e di montagna, tra il sentimento dell’universale di cui si vuole far parte per condividere l’innovazione che ha soppiantato il progresso ingegnerizzando il futuro, e quello del particolare, in cui ci si rifugia per proteggersi dalla minaccia del presente. E questa nuova divisione del nostro mondo si replica ormai ad ogni elezione, col terzo incomodo che è l’astensione di massa.
È una geografia minima in movimento dentro il guscio totale della mondializzazione, che abbattendo il tempo e lo spazio sembrava aver cancellato anche il luogo. E invece la città riemerge superstite persino nella partita più ostile, che sembrava cancellarla, quella globale delle crisi contemporanee, capaci di paralizzare persino gli Stati, nella loro dimensione sovranazionale, epocale.
Non solo. Una di queste crisi, la pandemia, ha attaccato insieme con le persone anche la scena urbana della vita municipale, disarticolandola e svuotandola mentre ci disabilitava dal nostro sistema di relazioni, spegnendo le città dal cui paesaggio mancava l’umano, cioè la vita associata: ma il concetto sovrano della polis come infrastruttura fondamentale della democrazia non si è spento, e nemmeno la coscienza della comunità civile originaria organizzata intorno al bene comune. Sconfitto il virus, questi caratteri civici fondamentali sono riemersi intatti nei vecchi municipi, presidi di resistenza, riserve di rappresentanza, sperimentazioni di nuova cittadinanza.
Forse, alla fine, la vecchia talpa è proprio la città, che nell’inaridimento dei partiti e nelle tentazioni di scorciatoie populiste esplora il cambiamento possibile, non si rassegna all’impotenza politica, custodisce e rinnova il principio democratico di base, continuando a scavare sotto la superficie sorda della crisi.