«A Terni c’è scritto: “Questa acciaieria è stata fondata nel 1885 dallo Stato italiano. Qui, a Taranto, la targa non c’è. Ma forse andrebbe scritto: “Questa acciaieria è stata fondata nel 1960 dallo Stato italiano”. Quando si fanno queste rivoluzioni, bisogna che siano sostenute dalle grandi istituzioni». L’amministratore delegato di Acciaierie d’Italia, l’ex Ilva, Lucia Morselli, al proposito ha le idee chiare. E le ha ribadite giovedì 16 novembre in un seminario ospitato nel sito industriale di Taranto sulla decarbonizzazione dell’industria siderurgica. La rivoluzione a cui fa riferimento è infatti quella dell’acciaio green per la quale «la parte scientifica ed economica devono andare in parallelo». Da qui la domanda che Morselli ha posto alla platea di ingegneri riuniti in Puglia che sarà anche al centro dell’assemblea di Acciaierie d’Italia del prossimo 23 novembre: «Chi paga il conto della decarbonizzazione?». La risposta di Morselli — e di ArcelorMittal, azionista di maggioranza di Acciaierie d’Italia con il 62% (il restante 38% fa capo alla pubblica Invitalia) — è scontata: «Penso che gli Stati, come accade in grandi Stati europei, debbano intervenire e anche l’Italia deve fare il suo ruolo».
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La contrapposizione pubblico-privato
Da tempo all’interno della più grande acciaieria d’Italia si confrontano (e spesso si contrappongono) le due anime: quella pubblica e quella privata. Il 23 novembre dovranno, giocoforza, trovare un punto d’incontro: perché è arrivato il momento di capire chi, e in che proporzione, metterà – subito — i circa 300 milioni che servono per andare avanti e – successivamente – i 4,6 miliardi necessari, in 8 anni, per la decarbonizzazione e il ritorno alla produzione di 8 milioni di tonnellate di acciaio. Come previsto dal memorandum d’intesa siglato dal governo con ArcelorMittal lo scorso 11 settembre in cui il governo si impegna a finanziare il piano con 2,27 miliardi (facendo ricorso al RePowerEu o altri fondi europei), con i restanti 2,35 miliardi a carico di Acciaierie d’Italia. Ma in che proporzioni lo faranno il socio pubblico e quello privato di Adi? Questo il nodo da sciogliere. Che, del resto, è il primo punto all’ordine del giorno dell’assemblea: piano industriale e misure di rafforzamento finanziario della società. La soluzione condivisa tra i soci va trovata in questi giorni che mancano all’appuntamento del 23 novembre.
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Il ruolo di Fitto e di Invitalia
Per questo, secondo quanto trapela da fonti vicine alla trattativa, ArcelorMittal ha chiesto al ministro per gli Affari europei Raffaele Fitto — che ha preso in mano il dossier ex Ilva, prima assegnato al collega Adolfo Urso, da luglio scorso, da quando un suo emendamento è stato approvato in commissione Politiche della Ue al Senato, in sede di conversione del decreto Salva Infrazioni — di istruire Invitalia in vista dell’assemblea in modo che l’azionista pubblico esprima con il suo voto il volere di Palazzo Chigi. Per evitare cortocircuiti come quello verificatosi dopo la firma del memorandum quando i vertici del socio pubblico (nominati dal governo Draghi), e in particolare l’ad Bernardo Mattarella, misero sotto accusa la gestione e il modo di agire del socio privato ArcelorMittal.
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Cosa farà il dimissionario Bernabè?
Una delle tante contrapposizioni tra le due anime della società, come anche quella che riguarda il secondo punto all’ordine del giorno, le dimissioni del presidente della holding Franco Bernabè (di espressione pubblica, con i consiglieri Ernesto Somma e Tiziana De Luca, cui si affiancano in cda quelli di espressione privata Lucia Morselli, Eric Niedziela e Ondra Otradovec). Tanto Bernabé quanto Morselli concordano sulla necessità di almeno 300 milioni subito per acquistare le materie prime, per produrre e mantenere in movimento la macchina. Ma l’anima privata di Acciaierie d’Italia contesta a quella pubblica rappresentata da Bernabè di avere, in un certo senso, operato in direzione opposta annunciando da tempo la volontà di dimissioni (finalizzata, secondo il presidente, a evidenziare invece la necessità delle risorse), complicando la possibilità di ottenere la somma necessaria con un finanziamento da un pool di banche coordinato da Mediobanca. Evidentemente preoccupatesi dopo l’allarme lanciato dallo stesso Bernabè davanti a una platea istituzionale come la commissione Attività produttive della Camera: «Senza risorse la società si spegne per consunzione».
Chi mette le risorse?
Come si esce da questa contrapposizione pubblico-privato? Non certo con la nazionalizzazione — come pure vorrebbero i sindacati, molto critici nei riguardi della gestione ArcelorMittal — almeno fino a quando il dossier resterà nelle mani di Fitto, da sempre contrario: Invitalia, al contrario di quanto deciso in precedenti accordi, non aumenterà (dal 2024, ma si era pensato anche a un anticipo al 2023) la partecipazione in Acciaierie d’Italia dall’attuale 38 al 60%, con conseguente cambio di governance. Andrà trovata una mediazione tra le due anime, come in occasione dei 750 milioni – 680 di fonte pubblica e 70 privata sotto forma di rinuncia a crediti – dell’ultima iniezione di liquidità decisa ormai un anno fa dal consiglio dei ministri. In quel caso l’equilibrio fu raggiunto, lo stesso andrà fatto sia per i 300 milioni necessari da subito, sia per i 4,6 miliardi a lungo termine. Del resto, anche Morselli e il socio privato ArcelorMittal lo sanno, come messo nero su bianco nel memorandum d’intesa: non possono esserci soluzioni locali per un’azienda multinazionale, non possono esserci sostegni solo pubblici se non si vuole inciampare negli aiuti di Stato. Resta da decidere solo il quanto e il come: la linea guida è che il socio privato rinunci ai dividendi per i prossimi anni creando valore in Italia; e che lo Stato sostenga l’acciaio accettando come dividendo la competitività del Paese.
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21 nov 2023
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