Klopp-Liverpool, cosa c'è dietro l'addio e la nuova vita a Maiorca (con i social)

diCarlos Passerini

L'allenatore tedesco saluta Anfield dopo 9 anni e 8 trofei: «Vi amo da pazzi, sarò per sempre uno di voi». La rivalità perfetta con Guardiola

L’hanno salutato nell’unico modo possibile, cantandogli «You’ll never walk alone», che per la gente di Liverpool è qualcosa di diverso da un coro da stadio, è molto di più, una via di mezzo fra un inno e una preghiera, inarrivabile colonna sonora di ogni benedetta domenica ad Anfield dal lontano 1963. «Non camminerai mai solo» intona tutto lo stadio, mentre Jurgen Klopp ascolta in silenzio, con le lacrime agli occhi, prima della partita poi vinta dai suoi per 2-0 sul Wolverhampton nell’ultima giornata di Premier League, che per lui sarà anche l’ultima da allenatore dei Reds.

«Ci sono parti del mio lavoro che non sopporto più, mi serve una pausa ed è il momento di prendermela» ha spiegato nel gennaio scorso, ufficializzando l’addio dopo nove stagioni e otto trofei. Basta, non me la sento più: un’umanissima ammissione di normalità, a 56 anni, dentro a un mondo come quello del football professionistico che vive di «overperformance», sempre e comunque.

Se fra il manager tedesco e la gente di Liverpool è stata una lunga storia d’amore, il motivo è anche questo: ha saputo creare un’empatia che è andata oltre il campo, diventando innanzitutto un simbolo della working class, come prima di lui era riuscito a fare solo Bill Shankly fra il ’59 e il ’74.

 Sorrisi, trofei, pinte di birra scura offerte al pub: così Klopp ha conquistato non solo i tifosi, ma la gente comune del Merseyside. «Per me questa è la città delle braccia aperte» ha scritto in un’intensa lettera pubblicata sull’Echo, il quotidiano locale. Nel libro «Klopp: Bring the Noise» del giornalista tedesco Raphael Honigstein, dice: «Sono di sinistra, ovviamente. Credo nel welfare state. Non voterei mai un partito che promettesse di abbassare le tasse ai più ricchi». Parole forti e idee chiare, sempre.

La sua cerimonia d’addio ha oscurato anche la festa del Manchester City per la conquista della quarta Premier consecutiva. Proprio Guardiola è stato la sua nemesi, il nemico perfetto di una rivalità che mancherà moltissimo non solo al calcio inglese: l’uomo del popolo contro il principe, il calcio «progressive» contro il regale tiki-taka. «Il suo addio è uno choc, ma ora dormirò meglio» ha sorriso Pep, divenuto un amico.

Prendendo il microfono a fine partita, Klopp prima ha sorpreso tutti lanciando un coro per il suo successore, l’olandese Arne Slot, poi ha salutato i tifosi: «Vi amo da impazzire, ora sono uno di voi». Lo aspetta una pausa che potrebbe durare un anno o per sempre: non lo sa. Andrà a vivere al caldo, a Maiorca, come i pensionati tedeschi, con la moglie Ulla, conosciuta vent’anni fa quando lavorava come cameriera all’Oktoberfest. Per non sentirsi solo, ha aperto un profilo social che in poche ore ha raggiunto quasi due milioni di follower, firmandosi «The Normal One», come si presentò all’arrivo nel 2015. Prima di uscire da Anfield per l’ultima volta, in mezzo a 50mila persone in lacrime, ha fatto l’inchino e si è levato l’immancabile cappello. Mancherà.

20 maggio 2024

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