La «strage dei quattro picciriddi» a Catania, il «cold case» di mafia che spunta dalle carte sulla corruzione a Genova

diAlessandro Fulloni

7 luglio 1976: Riccardo, Giovanni, Lorenzo, e Benedetto, tra i 13 e i 15 anni, spariscono nel nulla. Si scoprirà poi che furono uccisi per uno sgarro. Intercettato, ne parla uno degli indagati accusato di rapporti con i clan: «Quel mio parente? Si è chiarito che non c'entrava...» 

La «strage dei quattro picciriddi» a Catania, il «cold case» di mafia che spunta dalle carte sulla corruzione a Genova

Luglio 1976: gli articoli del Corriere dedicati alla «strage dei picciriddi»

La chiamar0no la «strage dei picciriddi», l'uccisione di quattro ragazzini, Riccardo Cristaldi, Giovanni La Greca, Lorenzo Pace e Benedetto Zuccaro, tutti tra i 13 e 15 anni, avvenuta presumibilmente il 7 luglio 1976 a Mazzarino, nel Catanese. Strozzati, gettati in un pozzo. Mai più ritrovati. Ma cosa c'entra questo cruento delitto con l'indagine sulla corruzione attorno al business della logistica del porto che sta terremotando Genova? Sotto certi aspetti niente. Solo che tra le migliaia di pagine agli atti dell'inchiesta se ne parla. E in circostanze non da poco. Emerge tutto tra le parole (scambiate tra i cugini Venanzio e Franco Maurici e Luigi Mamone, 85enne imprenditore assai noto a Genova dove è morto nel 2021) che, intercettate, fanno riferimento a certi omicidi che insanguinarono la Sicilia. Qui però calano un paio di omissis. Nomi non se ne fanno. E il riserbo degli investigatori è massimo. 

Venanzio Maurici, 65 anni, è uno degli indagati. Il filone che lo riguarda è quello sullla presunta corruzione elettorale - voti per rieleggere lo schieramento Toti in cambio di posti di lavoro o una casa negli stabili di edilizia popolare - aggravata dall'agevolazione mafiosa, il reato che gli è stato contestato. 
Ma prima di ricostruire lo scenario dei quattro omicidi che per ora ci può essere restituito dai  recenti documenti giudiziari, torniamo a quei giorni drammatici del 7 luglio 1976. Giovanni e Riccardo sono quindicenni, Lorenzo ha 14 anni  e Benedetto 13. Qualche giorno prima, uno di loro aveva scippato la borsa alla madre di Nitto Santapaola, potentissimo boss catanese. I quattro, che vivevano nel quartiere San Cristoforo spariscono nel nulla. 

Se della loro sorte atroce, strozzati, gettati in un pozzo, si venne a sapere una dozzina di anni dopo fu solo perché ne parlò il pentito Antonino Calderone, confessandolo ad Antonio Manganelli, allora brillante vicequestore e poi capo della polizia sino al 20 marzo 2013, quando morì per le conseguenze di un male incurabile, al pm Leonardo Guarnotta e a Giovanni Falcone.  Calderone, con la coscienza rosa da devastanti sensi di colpa, raccontò che i quattro ragazzi erano stati sequestrati e rinchiusi in una stalla perché disturbavano la tranquillità del quartiere con continui atti di teppismo.

 I quattro furono presi, picchiati, strangolati, gettati in un pozzo a Mazzarino, nelle vicinanze di Catania. dove venivano fatto sparire altri cadaveri sin dal tempo di guerra. Il pentito disse che uno di loro venne buttato che forse era vivo. Questo perché all'ultimo uno dei mafiosi assassini non se la sentì di togliergli la vita con le sue mani.  Il 10 marzo ci furono degli arresti. Se ne parlò in televisione, ma non così tanto. Un giornalista del Corriere, Domenico Tempio, raggiunse le madri di quei picciriddi, erano sconvolte, disperate. Per dieci anni avevano continuato a cercarli, andando a Napoli e anche a Genova, convinte che si fossero innamorati di qualche lucciola. «Ma cos'hanno fatto di male per morire a quel modo?» disse una. Di Riccardo, Giovanni, Lorenzo e Benedetto, per quel che se ne sa sinora, non esistono foto che li ricordino anche se alla Questura di Catania erano schedati come generici «ladruncoli».

Ma ora torniamo all'indagine. È la mattina del 20 dicembre 2020, gli accertamenti delle Fiamme Gialle sono in corso da qualche tempo, pedinamenti, telefoni sotto controllo, captazioni. Ogni parola viene monitorata. La scena è questa.  Due riesini, i cugini Venanzio e Franco Maurici, vanno a trovare nel suo ufficio Luigi Mamone. Il primo, Venanzio, è il presunto referente dei Cammarata, il clan che si è silentemente infiltrato nel quartiere Certosa di Genova. Con i Cammarata, ha delle parentele. È segretario della Fillea-Cgil di Genova ora in pensione, è stato sospeso dal sindacato e il segretario nazionale Maurizio Landini ha detto che è «importante averlo fatto immediatamente».  Martedì Maurici è stato interrogato, si è avvalso della facoltà di non rispondere e fuori dal tribunale ai giornalisti ha detto  che «non c'entro niente con nulla.
L'inchiesta è surreale, nei miei confronti ovviamente. C'è una grande confusione, smentisco di avere aiutato Toti, cosa che per me è infamante».

 Sui rapporti con Cosa Nostra ha risposto: «Sono 20 anni che continuano con questa storia della parentela. Con uno sono cognato ma non lo vedo da anni, l'altro nemmeno lo conosco». Quanto ai Testa - i due fratelli riesini coinvolti anche nell'approfondimento sulla possibile talpa tra gli investigatori - l'ex sindacalista ha detto «siamo amici da vecchia data ma non abbiamo rapporti perché politicamente distanti. Io sono di sinistra e loro di destra». 

Mamone, origini reggine, nelle carte è dipinto come vicino «alla potente cosca di 'ndrangheta Raso-Gullace-Albanese». È un imprenditore attivo tra l'edilizia e i rifiuti, ha «ottenuto lucrosi appalti pubblici attraverso pratiche corruttive». Nei documenti viene specificato comunque che è morto «da incensurato». L'incontro è tra conoscenti che non si vedono da tanto tempo. «Minchia come  come somigli a tuo papà» dice Mamone a Franco Maurici e si riferisce «al fu Maurici Giacomo, considerato capo del clan Maurici di Genova». Gli ricorda pure di quando assieme a Giacomo regolarono degli screzi con il clan napoletano  degli Angiolleri, «famiglia malavitosa operante nel ponente genovese». Il cordiale «faccia a faccia» è per risolvere alcune questioni economiche relative a dei conoscenti e inevitabilmente si «scambiano alcune informazioni sulle «sorti di alcuni soggetti» legati a cosche e clan di comune conoscenze. Tra frasi così - «mio cognato c'ha l'ergastolo...», «fa conto che laggiù c'è una flotta di pentiti...»,  c'è pure un accenno alla «strage dei picciridi». 
Mamone: «Tu le sai, che sei dentro tra famiglie...».
Venanzio Maurici: «Sì, ti sto dicendo come sono andate veramente le cose, non le sa nessuno, bene, bene, bene. Queste cose qua che stiamo dicendo adesso qua, tutto è successo quando hanno arrestato a Pino... che avevano coinvolto per l'omicidio di quei quattro ragazzini... eh!... di Santapaola... a Mazzarino... perché siccome è successo a Mazzarino... per la legge... Pino doveva saperlo per forza... perché il mandamento... che ci indicavano a lui... Era di Riesi, Mazzarino e arrestano a Pino... quello non sapeva un c... ma vero... non sapeva un c... però se lo portano... e quando i gatti mancano...». Franco Maurici: «Quattro omicidi...».  
Venazio Maurici: «Poi erano quattro ragazzini, e son spariti eh!»

Mamone chiede: «Ma Di Cristina non c'era più?». il riferimento è al «tigre», Giuseppe, il potentissimo boss riesino ucciso poi nelle guerra di mafia negli anni Ottanta. «No, Di Cristina non c'era più» prosegue Venanzio Maurici. Che poi conclude, in qualche modo risollevato: «Per fortuna di Pino si è chiarito bene come lui non c'entrava niente...». Poi si parla di un altro omicidio. Si fa un nome di donna.  Venanzio  Maurici dice: « È lei la mandante».  C'è un primo omissis. «Te la ricordi?». Ma ecco il secondo omissis. 

16 maggio 2024 ( modifica il 16 maggio 2024 | 17:06)

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