Israele pronto all’intesa. Gli Usa: «Ora tocca a Hamas»
Botta e risposta tra Netanyahu e la Casa Bianca. Hezbollah intensifica gli attacchi sul Nord
Il liquame delle fogne inonda le tende a Khan Younis che da campo di battaglia è diventata campo sfollati. C’è chi aveva lasciato la cittadina palestinese per tornarci senza più avere una casa, chi ci è arrivato scappando dal nord e da qui era scappato ancora. Le truppe israeliane continuano l’operazione a Rafah ed è da lì che adesso bisogna andarsene, anche se il raid sembra per ora restare limitato ad alcuni quartieri della cittadina e alla fascia di confine con l’Egitto, dove l’esercito calcola che Hamas abbia scavato un centinaio di tunnel, le truppe ne hanno individuati e distrutti cinquanta.
Nonostante la devastazione, i capi nascosti nelle gallerie sembrano prendere tempo prima di dare una risposta definitiva alla proposta per una tregua, che comunque giudicano «positiva». Yahya Sinwar, il pianificatore dei massacri perpetrati dai terroristi il 7 ottobre, sarebbe convinto — specula il quotidiano americano Wall Street Journal — di poter andare avanti, mentre i leader all’estero sono favorevoli ad accettare il piano annunciato venerdì scorso da Joe Biden.
Un piano che John Kirby, portavoce del consigliere per la sicurezza nazionale alla Casa Bianca, ribadisce essere «israeliano», quando replica stizzito alle parole di Benjamin Netanyahu che ha definito la presentazione del presidente americano «incompleta»: «È stata una descrizione accurata. Adesso tocca ad Hamas, deve accettare l’accordo: buono per la popolazione palestinese, buono per la sicurezza israeliana».
Biden ha ribadito il sì israeliano e la necessità di fare pressioni sui jihadisti in una telefonata con l’emiro del Qatar. Il premier israeliano rimarca che il «cessate il fuoco sarà solo alle nostre condizioni». Ammette che di una tregua permanente «discuteremo» dopo la prima fase: sei settimane in cui verrebbero rilasciati una trentina di rapiti, non solo vivi come chiedeva Netanyahu all’inizio. Al sedicesimo giorno i mediatori tenterebbero di ottenere la fine del conflitto che per Bibi, com’è soprannominato, non può prescindere «dalla distruzione di Hamas».
Gli alleati dell’estrema destra minacciano di lasciare il governo, ma nella coalizione al potere il premier trova già il sostegno di un partito ultraortodosso e dall’opposizione Yair Lapid ripete di essere disposto a garantire una maggioranza che porti a casa il patto e gli ostaggi: ne restano 120 tenuti a Gaza, 42 tra loro sono considerati morti dall’intelligence dell’esercito. Una fonte israeliana di alto livello spiega a Nadav Eyal, editorialista del quotidiano Yedioth Ahronoth, che «potrebbero intervenire altre circostanze e saremmo comunque costretti a fermare il conflitto».
I palestinesi uccisi in 241 giorni sono quasi 37 mila, secondo le stime del ministero della Sanità a Gaza che non distingue tra civili e combattenti.
Le possibili «circostanze» sono pericolose quanto le fiamme nel nord di Israele: l’Hezbollah libanese ha intensificato gli attacchi, maggio è stato il mese con più lanci di razzi e droni dall’ottobre dell’anno scorso. Lo stato maggiore si sta preparando all’eventualità del conflitto totale. I pompieri non riescono a domare gli incendi causati dalle esplosioni ed evocano quell’«anello di fuoco» attorno a Israele minacciato da Qassem Soleimani, il generale iraniano ucciso dagli americani nel 2020.
«Il regime sionista si sta disfacendo ed è stretto in un corridoio senza uscita» proclama Ali Khamenei, la Guida Suprema. Gli replica duro Abu Mazen, il presidente palestinese e rivale di Hamas: «Vuole sacrificare il sangue del nostro popolo, la guerra non ci serve».