Perché i 100 metri sono la gara olimpica per eccellenza: da Carl Lewis a Bolt, storia e protagonisti

diAldo Cazzullo, inviato a Parigi 

Sperando in un altro miracolo di Jacobs, godiamoci la prova più iconica dei Giochi: Jesse Owens che umiliò Hitler, il duello fra Carl Lewis e Ben Johnson, i record di Bolt. E Parigi potrebbe svelare una nuova stella 

Scordiamoci Tokyo. Marcell Jacobs non è più quello. Non è stata una meteora, dopo l’oro olimpico ha vinto un Mondiale indoor e due Europei, oggi si gioca la semifinale. E noi godiamoci lo stesso la gara olimpica per eccellenza. Perché Parigi potrebbe svelare una nuova stella, giamaicana come Bolt: Kishane Thompson.

«L’uscita dall’ufficio il venerdì pomeriggio aveva lo stesso rituale di una finale dei 100 metri olimpica» diceva la voce fuori campo di Paolo Villaggio, mentre Fantozzi, Filini, Calboni e la signorina Silvani si preparavano a scattare come Jesse Owens che umiliò Hitler, Armin Hary il tedesco che rubava alla partenza, Valeri Borzov che fece suonare l’inno sovietico a Monaco, Gail Devers con le sue unghie lunghissime che le consentirono di dire: «Mandate la mia rivale Marion Jones a passeggiare un’ora in stazione; nessuno si accorgerà di lei. Io ho sempre i fotografi sotto casa».

I dominatori, da Carl Lewis e Ben Johnson a Bolt 

La tensione che precede lo sparo della finale dei 100 metri è il momento magico di ogni Olimpiade. Ha il richiamo ancestrale del primo sport praticato dall’uomo: correre. Correre il più veloce possibile, per non essere predato o per non morire di fame. Una tensione al limite della sofferenza: Carl Lewis pativa fisicamente il rivale Ben Johnson, a Seul dovette quasi rincorrerlo per congratularsi, con quello che gli dava ostentatamente la schiena, come se avesse qualcosa da nascondere: fu squalificato per doping. 

Tutto finito con l’arrivo di Usain Bolt: il campione allegro. Showman, sbandieratore, cameraman, intervistatore di se stesso: uno spettacolo dentro e fuori la pista. Capace di scherzare al via e di scherzare dopo l’arrivo. A Londra 2012 festeggiò l’oro sui 100 al Villaggio con tre giocatrici svedesi di pallamano, in una notte che valse ai tabloid inglesi milioni di copie (prudentemente a Rio lo scortava la madre Jennifer, che vegliava sul suo riposo). Talmente veloce da non avere rivali: solo una volta Bolt ebbe un gesto di scherno, mise l’indice davanti alla bocca rivolto all’altro giamaicano Yohan Blake, detto The Beast, la Bestia, che ha avuto la sfortuna di nascere in una generazione sbagliata.

Da Thompson a Kerley: chi ha sorpreso e chi deluso 

L’erede di Bolt si rivelerà forse tra un secolo, e Thompson ovviamente non lo è; però nella sua batteria ha destato una grossa impressione, ha corso solo per settanta metri, poi ha frenato sin quasi a fermarsi, come per nascondere la sua forza. Trecce rasta, corsa di potenza, fisico scultoreo, molto diverso dal suo compatriota brevilineo Seville Oblique.

Hanno fatto meno impressione gli americani. In particolare il più atteso: Noah Lyles, la speranza Usa di recuperare il trono olimpico. Istrione, al via si pettina le treccette, accenna una mossa di boxe — jab destro, jab sinistro, montante —, poi però è poco brillante, un po’ legnoso, insomma fa fatica. Meglio in batteria gli altri due americani, meno quotati: Kenneth Bednarek, 9”97 con la sua fascia bianca alla testa e i muscoli da culturista che visti da vicino fanno davvero paura; e Fred Kerley, il rivale di Jacobs a Tokyo, pure lui 9”97. Anche per la nostra staffetta ripetersi sarà proibitivo.

La supremazia americana (che ora è solo un ricordo)

Gli americani non vincono i 100 da Atene 2004, dove la loro superiorità era tale che in semifinale Justin Gatlin e Shawn Crawford cominciarono a parlare tra loro prima di tagliare il traguardo. Il favorito era Crawford, un matto che per denaro aveva gareggiato contro una zebra, perdendo clamorosamente («ma lei aveva quattro zampe, io solo due!»); in finale fu quarto, terzo Maurice Green che era primatista del mondo, primo Gatlin, un altro che con il doping aveva avuto problemi. Ci fu un tempo in cui gli americani potevano soltanto eliminarsi da sé; come a Monaco 1972, dove Hart e Robinson rimasero addormentati e non si presentarono ai quarti.

Americano era Jim Hines, il primo uomo a scendere sotto i 10 secondi, a Messico 1968, in una finale solo nera: Hines non levò il pugno guantato come Smith e Carlos dopo i 200, non giocherellò irridente con il berretto durante l’inno come Evans eroe dei 400; però firmò la petizione perché venisse restituito il titolo mondiale a Muhammad Ali. Americani furono Paddock e Scholz, battuti dall’inglese Abrahams nei Giochi di Parigi 1924, resi celebri dal film Momenti di Gloria: la scena in cui l’allenatore di Abrahams, non ammesso allo stadio in quanto tecnico professionista, vede salire la Union Jack dalla stanza della pensioncina che ha affittato e capisce dalla musica del «God save the king» che il suo allievo ha vinto l’oro, è una delle più commoventi della storia del cinema.

Sarà anche un duello di sponsor 

Ci siamo commossi ieri quando il pubblico dello Stade de France ha intonato «Rien de rien» di Edith Piaf, a stemperare la tensione di una giornata intensissima. Ci siamo commossi a Tokyo per Marcell Jacobs. È quasi impossibile che la scena si ripeta stasera. E pure Chituru Ali dovrà mulinare il suo piedone da 49 e mezzo molto più velocemente di ieri per avere speranze di finale. Questo non cancella e non sminuisce nulla. 

Ieri Marcell picchiava i muscoli ribelli, come per addomesticarli. Diamogli ancora una chance. Sarà anche un duello di sponsor: Jacobs per Puma, Lyles per Adidas, Thompson per Nike, che forse ha fatto l’investimento migliore. Saranno tre semifinali senza un solo bianco; ma presto verrà un giorno in cui non faremo più caso al colore della pelle degli atleti. I Giochi servono anche a ricordarci di Albert Einstein, quando, dovendo compilare un odioso questionario, alla voce razza rispose: umana.

3 agosto 2024

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