L’economista Sachs: “Bene l’accordo ma il difficile viene ora: i maggiori inquinatori riducano le emissioni”

«Il difficile viene adesso: se vogliamo che all’accordo segua la realizzazione, i dieci maggiori “produttori” di CO2, fra Paesi petroliferi e fortemente industrializzati oltre che sbilanciati sull’utilizzo di petrolio, carbone e gas, dovrebbero intraprendere, e pure in fretta, un negoziato multilaterale per concordare i rispettivi tagli alle emissioni. Qui sta il prossimo nodo». Eppure Jeffrey Sachs non è pessimista: «È sicuramente un fatto positivo che in una conferenza dell’Onu si sia raggiunto un accordo come questo, e io nell’Onu ci credo». Più che crederci, l’economista della Columbia University, classe 1954, con l’Onu ci lavora da molti anni: è presidente del Sustainable Development Solutions Network, organismo creato nel Palazzo di Vetro nel 2012, oltre che consigliere del segretario generale Antonio Guterres così come lo è stato con i predecessori fino a Kofi Annan con cui cominciò a collaborare nel 2002. Ha partecipato a quasi tutte le Cop, solo questa volta non c’era per un precedente impegno in Costa d’Avorio. «A Dubai si è celebrata una vittoria della diplomazia, certo, forse doveva essere una diplomazia un po’ diversa».


In che senso “diversa”?


«Si doveva chiedere con maggior rigore ai Paesi, almeno a quelli più “colpevoli” innanzitutto una quantificazione esatta delle emissioni attuali – non dimentichiamo che globalmente c’erano 26 miliardi di tonnellate di CO2 nell’atmosfera vent’anni fa e ce ne sono 37 miliardi oggi - e poi un programma più dettagliato di rientro».


Veramente nell’accordo c’è il rinvio, abbastanza cogente, agli impegni delle singole nazioni.


«I termini fissati sono molto ambiziosi: diminuzione dei gas serra del 43% nel 2030, del 60% nel 2035 rispetto ai livelli del 2019, emissioni zero nel 2050. Come dicevo, occorre concentrarsi sui maggiori inquinatori, le dieci nazioni di cui parlavo che devono compiere da subito i maggiori sforzi. Ma quali sono? Cina, Usa, Russia, India, Arabia Saudita, Indonesia, Australia, Canada, Iran e Iraq. Insieme, i tre quarti delle emissioni da fonti fossili nel mondo. Dovrebbero cooperare l’una con l’altra, costituire una sorta di cartello tipo Opec “allargata” e mettersi d’accordo sulla strategia. Intendiamoci, le strette di mano e i sorrisi di Dubai, al termine di due estenuanti settimane di trattative, sono in ogni caso un buon auspicio in un mondo in cui i problemi ambientali, politici, militari, sono tutti strettamente interconnessi. Diciamo che ora va dimostrato che attraverso l’ambiente passerà la pace mondiale. Speriamo che sia così».


C’è anche un problema finanziario. In quest’occasione si poteva fare di più?


«Direi di sì. Con le difficoltà economiche di molti Paesi, la transizione ecologica, già oggi una delle cause dell’esplosione del debito denunciata proprio in queste ore dalla Banca Mondiale, è in massima parte assegnata alle stesse compagnie energetiche, alcune delle quali – non posso negarlo – stanno dimostrando un certo senso di responsabilità: è vero che il Paese che ha ospitato la Cop, gli Emirati Arabi Uniti, è all’avanguardia nel solare e nel fotovoltaico, e questo grazie alle loro disponibilità economiche. Altrove non ci sono i mezzi, o vengono impiegati male: non devo andare molto lontano per vedere come l’amministrazione Biden, con tutti i suoi conclamati piani di investimento sussidiato, ha sì passato diversi tagli fiscali a beneficio delle tecnologie a basse emissioni, ma nessuna politica per favorire la diminuzione della produzione di petrolio».


Poi ci sono come sempre gli ultimi fra gli ultimi, i Paesi poveri già flagellati da inondazioni e uragani “pompati” dal cambiamento climatico. A loro beneficio è stato lanciato sempre alla Cop28 il fondo “Loss and Damage”. Basterà?


«Ancora: basterebbe se si tenesse fede agli impegni. Il fondo deve essere finanziato al ritmo di 50-100 miliardi di dollari l’anno, più o meno la metà dei danni “naturali” che subiscono i Paesi a basso reddito. Invece, per ora il fondo ha solo 700 milioni neanche versati ma promessi (100 milioni l’Italia, ndr). Purtroppo spicca negativamente ancora una volta il mio Paese, che ha ritagliato fortunosamente solo 17,5 milioni dal bilancio del Pentagono. E gli Stati Uniti sono responsabili per il 25% delle emissioni che causano il climate change».