La paura e il sollievo degli ostaggi liberati

I prigionieri che ieri a Gaza e nel West Bank venivano portati verso la libertà non si distinguevano gli uni dagli altri. Gli ostaggi ebrei rilasciati da Hamas erano nelle jeep della Croce rossa; i prigionieri rilasciati dalle galere di Israele avevano nel loro gruppo alcune donne velate. Ma sul volto avevano tutti gli stessi segni di stanchezza e le stesse lacrime. Tutto questo, 47 giorni di guerra, migliaia di vittime, anni di tensione per tener prigioniere vecchie signore – con e senza chador– giovani donne e bambini piccoli? Vi ha commosso più la settantenne che prima di Hamas faceva da baby sitter ai bambini del suo kibbutz, o la madre velata di una giovane donna che guardava questa figlia diventata grande in otto anni in una cella di Israele? Se c’è una possibile celebrazione della non violenza era l’intenso senso di somiglianza fra essere umani che lo scambio irradiava. Ma nemmeno questo ha penetrato, evidentemente, il mondo che abitiamo. Reso insensibile – di nuovo – dallo spostamento di una grande faglia di guerre che ci sta cambiando. A dispetto di quel che ci raccontiamo su quel che siamo o vorremo essere.

In Occidente la guerra uscita dalla memoria decine di anni fa è tornata realtà quotidiana. Il conflitto in Ucraina all’inizio è sembrato “addomesticabile”, una di quelle guerre “locali” che somigliano a una forte influenza della convivenza. Sarebbe finita in poche settimane, si disse all’inizio, poi in pochi mesi. Oggi siamo al secondo inverno e ha avuto tempo per svilupparsi, allargarsi, per mezzi e numero di vittime, ma senza risolversi. Il fallimento non ha rotto la nostra indifferenza al peso del conflitto. Nemmeno quando il peso economico anche su di noi è a sua volta diventato insopportabile. La “confort zone”, termine che insieme a “postura”, definisce non a caso il discorso pubblico attuale, non è stata mai intaccata. Si aspettava, ad allarmarsi, il nucleare.

Invece ancora una volta sono stati gli uomini, i postini che hanno bussato alla porta. Letteralmente. Sulle gambe di Hamas è arrivata la nuova guerra, piccola piccola, dichiarata a kibbutz e raduni giovanili nel deserto, ma grande per implicazioni. Per livello e goduria della violenza, combinati al voyerismo dell’orrore di migliaia di video, Hamas ha sfondato il vecchio parametro dell’odio. È stato l’innesco di un conflitto che anche nella risposta di Israele ha sfondato le regole, con migliaia di civili uccisi, sacrificati come “dettagli” intrappolati fra le bombe di Israele e i rifugi di Hamas. Il risultato di questo ampliamento dell’orrore è davanti ai nostri occhi – le proteste che in tutto il mondo ingolfano le strade delle grandi e piccole città del mondo, le aule delle università, rilevanti o meno che siano, e le chat sui nostri telefonini. Sentimenti antisemiti e antimussulmani che già avevano preparato e accompagnato il secolo breve.

Il richiamo al secolo scorso non è formale. Questioni considerate risolte palpitano oggi di nuovo vive – l’imperialismo, le razze, il colore della pelle, le dispute religiose, la competizione economica per l’accaparramento delle risorse, la sfida fra i più forti e fra forti e deboli. Questioni di storie, di rivolte, di identità, di territori, di confini e di accesso. Se tutto questo non fosse così radicato dentro la nostra storia, non si capirebbe l’intensità della tempesta che agita il mondo. Il panorama politico dell’Europa e degli Usa, ne è già stato modificato. Altrimenti non si potrebbe spiegare come la questione dell’immigrazione abbia tale influenza nello sviluppo politico dei destini di varie nazioni; perché le questioni di genere possano risultare irreparabili; perché fra ricchi e poveri non ci sia più alcuna comunicazione virtuosa; e perché infine le democrazie sembrino avere un peso così trascurabile nella gestione dei propri cittadini.

Il fatto è che queste grandi questioni nascono da, e si infilano dentro, la vita di ognuno. È il nemico quotidiano, è la paura, è l’assenza di qualunque empito comunitario. È il prodotto dello sdoganamento dell’odio. Legittimato di nuovo nelle sue forme più estreme contro l’altro, il diverso. L’odio è un veleno che agisce come un anestetico – di cui il primo effetto è la sterilizzazione di ogni sentimento di pietas nei confronti delle vittime. Vittime che nell’odio sono tali solo se sono della tua parte; per tutte le altre si tratta di “quel che meritano”. Invece è proprio qui che l’odio si può fermare: sostenendo che tutte le vittime sono uguali, tutte le vittime vanno difese e piante con le stesse lacrime.

Sono temi su cui può avere straordinaria influenza la grande mobilitazione delle donne che si sta formando in questo e in altri paesi contro la violenza. In particolare le donne possono influire proprio sull’idea di vittima, sulla sua “selezione”, non accettando che possano essere scelte secondo le inclinazioni ideologiche. Una tentazione che pure è emersa anche nella mobilitazione di ieri, che in una sua parte non ha incluso nell’elenco le donne ebree. Le donne stuprate ed uccise da Hamas con la goduria dei vendicatori sono vittime come tutte le donne che hanno subito violenza in ogni posto nel mondo. Fermare l’odio è questo. Non accettare di farne parte, non usarlo come uno strumento di parte. È in questo che può essere efficace anche la singola, piccola, testimonianza individuale contro il coinvolgimento collettivo cui l’odio sprona.

Giovedì scorso mi ha fatto pensare a tutto questo un colloquio con Liliana Segre a Genova, dove la Senatrice ha ricevuto il premio Ipazia. La Segre non ha dimenticato e non ha perdonato i suoi aguzzini. Ma si è fermata davanti alla tentazione dell’odio: «Semplicemente ho deciso che non avrei mai potuto fare loro le cose che erano state fatte a me. Io ero diversa da loro». Quella decisione l’ha resa la donna straordinaria che è oggi, non libera dalle ferite di allora, ma certo libera dal male che aveva subito.