Tivoli e l’incendio, viaggio nel degrado dei nostri ospedali: 6 su 10 hanno più di 70 anni e nel 60% dei casi non sono a norma

L’ospedale “San Giovanni Evangelista” che ha preso fuoco a Tivoli ha origini persino trecentesche, essendo stato inaugurato nel lontanissimo 1337. Ma è buona parte della nostra rete ospedaliera ad appartenere all’era giurassica. Del resto che l’Italia non sia proprio un Paese per giovani è risaputo. Ma la cosa si fa preoccupante se alla terza, anzi, alla quarta generazione, appartiene anche la maggioranza dei nostri ospedali. Vecchi fuori e pure dentro. Perché la maggior parte di loro è stata costruita prima della guerra e quasi uno su dieci ha visto passare persino le truppe napoleoniche. Mentre le apparecchiature per gli accertamenti sanitari basilari non tengono il passo con l’innovazione tecnologica.
Colpa dell’assenza cronica di investimenti in sanità e degli sprechi.

Ospedali vecchi e insicuri- Basta incrociare i dati della Commissione parlamentare d’inchiesta sul nostro sistema sanitario e quelli della Protezione civile per rendersene conto. Il 9% delle strutture ( ovvero 75) risalgono all’era napoleonica, nel 15% dei nostri nosocomi la prima pietra è stata messa quando i nostri bisnonni combattevano la prima guerra mondiale, mentre il 35% è stato costruito prima che finisse il secondo conflitto mondiale. In pratica 6 ospedali su 10 hanno più di 70 anni di vita alle spalle. E nemmeno ben portati. La Protezione civile denuncia che di manutenzione se ne fa ben poca è così il 60% rischia di venire giù con un terremoto nemmeno troppo violento.
Oltre alle statistiche quelli della Protezione hanno buttato giù anche una piccola black list degli ospedali pericolosi. Casi esemplificativi e non esaustivi, come quello del “Ss. Annunziata” di Napoli, classe 1889, senza manutenzione e investimenti, definito il più pericoloso della Regione. Ed è tutto dire, visto che sempre in Campania sorge l’Ospedale del Mare, che in realtà è a soli 7 kilometri dal Vesuvio, ossia in “zona rossa” per la Protezione civile.
Ma anche il nord ha le sue perle. Come la clinica pediatrica dell’Ospedale Maggiore di Parma, inaugurata nel 1920 qualche tempo fa ha generato una pioggia di calcinacci che solo per miracolo non ha fatto vittime. Anziché provvedere a opere di ristrutturazione si è preferito chiuderne un’ala.
Storie di ordinaria follia che hanno origine anche da una carenza cronica di investimenti. Da dieci anni la spesa per investimenti pubblici in conto capitale è ferma per carenza cronica di risorse e come quota di pubblici su quelli privati siamo oramai ultimi in Europa, ci batte solo la piccola Irlanda. Tutto questo nonostante un Piano di investimenti per l’edilizia sanitaria da quasi 17 miliardi di euro, messi a disposizione della Stato negli anni, ma utilizzato solo al 40%, denuncia la Corte dei conti. Che individua le colpe nelle procedure farraginose e nell’incapacità di realizzare progetti da parte delle amministrazioni locali. Gli stessi mali che ci fanno perdere decine di miliardi di cofinanziamenti europei.
Ora per dare una rammodernata ai nostri nosocomi arriva il Pnrr, che per la loro messa in sicurezza anche dal punt di vista antisismico e del rischio incendi mette sul piatto 1,6 miliardi, ai quali va aggiunto un miliardo e 450 milioni stanziati per gli stessi fini dal Fondo nazionale per gli investimenti complementari. Ma come dichiara a La Stampa il presidente della Federazione degli Ordini dei medici (Fnoom), Filippo Anelli, “l’impressione è che si stia procedendo un po’ a rilento e che occorra accelerare”.

Apparecchiature diagnostiche superate- Ospedali vecchi fuori ma anche dentro. Secondo l’Osservatorio parco installato di Confindustria dispositivi medici, l’associazione che rappresenta le imprese del settore. Il 71% dei mammografi convenzionali ha superato i 10 anni di età, il 69% delle Pet ha più di 5 anni e il 54% delle risonanze magnetiche chiuse hanno oltre 10 anni.

Partiamo dai mammografi. L’età media di quelli convenzionali è di 13,4 anni, quando non dovrebbero superare i sei, secondo gli standard di sicurezza e adeguamento tecnologico. Ma solo il 9% ha meno di 5 anni e l’84% supera comunque il limite anagrafico che darebbe diritto al pensionamento. Va un po’ meglio per gli angiografi, le apparecchiature che servono a valutare lo stato dei nostri vasi sanguigni e delle coronarie. Insomma un esame importante, che nel 61% dei casi affidiamo a una strumentazione ormai obsoleta.

La risonanza magnetica sappiamo tutti a cosa serve e quanto sia importante per diagnosticare in alcuni casi malattie, come quelle oncologiche, che prese per tempo possono ancora essere sconfitte. Peccato che ben il 74% di queste apparecchiature abbia superato il limite di età che le rende non più al passo con i tempi. Anche perché parliamo di risonanze magnetiche con minor livello di precisione, secondo l’unità di misura “Tesla”, che in questo caso è pari a 1, mentre quelle tecnologicamente più avanzate arrivano anche oltre il valore di 3. Qui la percentuale di obsolescenza scende al 41%. Ma le risonanze 4.0 sono una rarità degli ospedali italiani.

Le tomografie assiali computerizzate, le tac tanto per capirci, sono troppo in là negli anni in un caso su due (il 51% per l’esattezza). Anche in questo caso la percentuale si abbassa quando si va a contare l’età delle apparecchiature multistrato, capaci di vedere più in profondità dentro ossa e organi. Ma anche qui le Tac più avanzate sono quelle meno diffuse. A volte per fare una diagnosi corretta basta una semplice radiografia. Peccato che se parliamo degli apparecchi radiografici tradizionali l’81% abbia superato il limite dei 10 anni di anzianità, oltre i quali si farebbe bene a sostituirli, mentre obsoleto è il 48% di quelli digitali, che sono ancora una rarità nei nostri centri diagnostici.

Quando pensiamo a una sala operatoria ci vengono in mente bisturi e chirurgo ma non immaginiamo quanta tecnologia ci sia. Ad esempio per monitorare i nostri parametri vitali con quei grandi macchinari, definiti in termini tecnici “sistemi mobili ad arco”, obsoleti nel 57% dei casi.