Perché secondo la Corte Internazionale di Giustizia Israele deve lasciare i territori palestinesi
Nel suo parere non vincolante l'organo giudiziario delle Nazioni Unite considera l'occupazione illegale: equivale a un’annessione territoriale ottenuta con l’uso della forza in violazione del diritto all'autodeterminazione dei popoli
Venerdì pomeriggio, la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja ha emesso un parere relativo alla legalità internazionale dell’occupazione da parte di Israele dei territori palestinesi. La Corte ha risposto alle domande sollevate dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel dicembre 2022 (molto prima dell’inizio del conflitto attuale, che non costituisce il focus del parere). Semplificando, la Corte ha esaminato tre temi: il rispetto degli obblighi internazionali che incombono su Israele in quanto potenza occupante nei territori palestinesi; la legalità in termini generali di tale occupazione; e le conseguenze che scaturiscono dall’accertamento delle violazioni su questi due punti per Israele, per tutti gli altri Stati e per le Nazioni Unite. Il parere, reso a larga maggioranza e con l’adesione della giudice statunitense, è una censura totale della condotta israeliana.
La decisione della Corte
Il parere si distingue da una sentenza, perché è reso su richiesta di un organo legittimato (in questo caso, l’Assemblea Generale), e non al termine di un contenzioso tra Stati. La Corte ha anzitutto accertato la propria competenza e l’opportunità di rispondere. Così facendo, ha reso il parere superando le riserve espresse da alcuni paesi, fra cui l’Italia e il Regno Unito, che avevano chiesto ai giudici di valutare con cautela l’opportunità di pronunciarsi, per non compromettere lo spazio di trattativa disponibile alle parti impegnate nella ricerca di una soluzione diplomatica alla questione palestinese.
Nel merito, la Corte ha anzitutto valutato la legalità delle politiche israeliane nei territori occupati, cioè la Striscia di Gaza, Gerusalemme Est e la Cisgiordania. Il diritto internazionale non proibisce l’occupazione territoriale in quanto tale (questa può talvolta essere inevitabile, in situazioni di conflitto), ma impone in ogni caso alla potenza occupante il rispetto di alcuni diritti della popolazione civile dei territori occupati. La Corte ha chiarito anzitutto che Israele agisce come potenza occupante anche nella Striscia di Gaza, nonostante la demilitarizzazione e il ritiro dei coloni del 2005, in ragione dell’esercizio di un esteso potere di controllo sui confini, le risorse, l’amministrazione e la vita della popolazione locale.
La Corte ha ritenuto poi che le pratiche e le politiche israeliane violino i diritti della popolazione palestinese. L’occupazione prolungata per più di 57 anni, secondo la Corte, si è trasformata in una amministrazione permanente che ha soppiantato le autorità e il diritto locali. Il supporto di Israele alle pratiche di colonizzazione ha poi, secondo i giudici, infranto il divieto di trasferire i propri cittadini nel territorio occupato (conversamente, l’imposizione di condizioni di vita insostenibili ha integrato il crimine di deportazione di massa, spingendo i palestinesi a trasferirsi altrove). Inoltre, la Corte ha censurato lo sfruttamento israeliano delle risorse dei territori palestinesi a discapito della popolazione locale, e ha riscontrato pratiche di discriminazione razziale sistematiche contro la popolazione palestinese. Significativamente, i giudici hanno accertato la commissione di gravi forme di segregazione razziale. L’insieme di queste misure e politiche, secondo la Corte, costituisce una violazione continuata del diritto fondamentale del popolo palestinese all’autodeterminazione.
Duro e senza precedenti è stato anche il verdetto della Corte sulla legalità dell’occupazione in quanto tale. Mentre la Corte aveva già indicato, nel 2004, che certe politiche israeliane nei territori occupati – segnatamente la costruzione del muro di protezione in Cisgiordania – violavano il diritto umanitario, questa volta è andata oltre. Secondo la Corte, la presenza israeliana nei territori occupati (il riferimento è in particolare a Gerusalemme Est e alla Cisgiordania) è illegale tout court, perché la sua natura sostanzialmente permanente la rende equivalente a un’annessione territoriale ottenuta con l’uso della forza. Questa situazione rappresenta una violazione del divieto fondamentale su cui si fonda la Carta delle Nazioni Unite e la convivenza della comunità internazionale degli Stati, quello sull’uso della violenza armata nei rapporti internazionali.
La Corte è stata molto ferma anche nel rispondere all’ultimo quesito, relativo alle conseguenze che discendono dall’accertamento di questi illeciti. Anzitutto, la Corte ha decretato che Israele deve ritirarsi al più presto da tutti i territori occupati, da cui devono anche evacuare tutti i coloni. Inoltre, il parere stabilisce un obbligo di riparazione delle violazioni del diritto internazionale umanitario compiute da Israele in quanto potenza occupante, che presumibilmente dovrebbe consistere in risarcimenti ingenti per i danni causati, oltre che alla restituzione di tutti i territori occupati. I giudici hanno anche riconosciuto l’obbligo per tutti gli Stati di cooperare con gli organi delle Nazioni Unite per dare pieno effetto al diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese e di non riconoscere nessun cambiamento nella struttura fisica o demografica dei territori occupati. È infine importante sottolineare come la Corte abbia espressamente vietato a tutti gli Stati «di aiutare o contribuire al mantenimento della situazione creata con la continua presenza di Israele» nei territori occupati.
Possibili scenari
Israele non darà seguito all’opinione della Corte. Pochi minuti dopo la sua lettura, il ministro degli Esteri israeliano l’ha definita «fondamentalmente sbagliata». Le opinioni della Corte non sono peraltro vincolanti in quanto tali, come lo sono invece le sentenze. La loro funzione principale è quella di chiarire punti controversi di diritto internazionale per consentire all’organo richiedente di svolgere il proprio mandato. In questo contesto, l’Assemblea Generale prenderà atto di questo parere, lo sosterrà e chiederà agli Stati di adeguarvisi. Probabilmente, sarà messa in discussione una risoluzione per chiedere al Consiglio di Sicurezza - in quanto garante principale della pace e sicurezza internazionali - di dare seguito in termini concreti alla decisione della Corte. La stessa Corte ha richiamato il ruolo del Consiglio di Sicurezza per l’identificazione degli ulteriori passi necessari per far terminare «la presenza illegale di Israele» nei territori occupati.
Contrariamente alle attività dell’Assemblea Generale (che non possono produrre atti con forza vincolante), però, le decisioni del Consiglio di Sicurezza potrebbero essere bloccate dal diritto di veto dei membri permanenti alleati di Israele. Data la censura totale della condotta israeliana e il forte valore politico della pronuncia, è ragionevole attendersi iniziative statali anche esterne al contesto delle Nazioni Unite, come accadde nel 2004 dopo la prima opinione consultiva della Corte riguardo a Israele.
Questo parere si somma alle decisioni preliminari rese dalla stessa Corte nei casi «Sud Africa contro Israele e Nicaragua contro Germania», due controversie che pendono davanti ai giudici dell’Aja e sono incentrate sui fatti del conflitto ancora in corso. Questi altri casi, il primo relativo all’accusa di genocidio massa a Israele, il secondo a un’accusa di complicità per vari illeciti mossa alla Germania, si trovano ancora a una fase molto preliminare, ma nel primo la Corte ha già ordinato senza successo a Israele di interrompere l’offensiva militare a Gaza, nel maggio scorso, per evitare il rischio di un aggravamento della situazione. È quindi evidente che, in questo momento, la posizione di Israele è sotto scrutinio crescente, e che gli organi giudiziari internazionali hanno messo da parte ogni esitazione nel trattare quella che per decenni è stata considerata una questione di natura prevalentemente politica. A prescindere dagli effetti di queste pronunce, colpisce anche la risolutezza della Corte nell’adempiere al proprio mandato di stretta applicazione del diritto, mettendo da parte l’approccio diplomatico che a volte i tribunali internazionali adottano in dispute dall’elevato profilo politico.
* Paolo Busco è avvocato internazionalista presso lo studio Twenty Essex di Londra; Filippo Fontanelli è professore di diritto internazionale all’Università di Edimburgo e alla LUISS Guido Carli di Roma