Quel messaggio ai partiti Il governatore da arrestato non pensa di dimettersi
E sottolinea gli obiettivi «rivendicati dalla maggioranza che mi sostiene»
Alla fine Giovanni Toti potrebbe davvero raggiungere la dimensione nazionale alla quale da sempre aspira. Nelle vesti che meno in vita sua si sarebbe augurato, quelle del caso giudiziario, destinato a dividere, a far discutere. Rimanendo in carica, per quanto azzoppato, come una specie di monito per i posteri, ma soprattutto per i suoi contemporanei. Perché appare sempre più chiaro che il presidente della Liguria, oggi sospeso dalle sue funzioni, non ci pensa proprio a dimettersi. Piuttosto, se ne resta agli arresti domiciliari, nella sua casa di Amelia, ad assistere allo spettacolo d’arte varia di una classe politica nazionale che dopo le elezioni europee dovrà pur pronunciarsi sulla sua sorte.
La memoria difensiva depositata ieri si colloca a metà strada tra il documento politico e la strategia comunicativa. Non è un caso che sia finita nelle mani dei media subito dopo la fine del suo interrogatorio, mentre lui e il suo avvocato erano ancora in caserma, intenti ad approvare il verbale. Toti voleva che fosse letta, che circolasse ovunque, che diventasse uno strumento per far sentire la sua voce. E per chiamare alle proprie responsabilità, gli alleati nazionali che si stanno baloccando con una solidarietà a tempo, ma che nei corridoi sostengono come sia difficile andare avanti così, con una giunta di centrodestra congelata, in mano alle seconde file, non un bello spettacolo.
Quando scrive, e lo ha fatto di suo pugno, sottoponendo il testo solo dopo averlo ultimato alla mediazione dell’avvocato Stefano Savi, di aver «sempre perseguito l’interesse pubblico, fine unico ed ultimo» della sua azione politica, e di averlo cercato «come costantemente rivendicato dal programma politico della maggioranza che mi sostiene, non mediante la contrapposizione con le rivendicazioni dei privati, quanto piuttosto attraverso la veicolazione di queste verso l’interesse della collettività e del territorio», manda anche un forte avviso ai naviganti. Queste cose le ho sempre dette e fatte, sembra affermare, e voi ne eravate al corrente, perché stavate con me.
Non siamo dalle parti di Bettino Craxi e del suo discorso sul finanziamento pubblico dei partiti, per carità questa storia della Liguria è Disneyland al confronto, ma l’ispirazione è quella, per altro coerente con le sue antiche simpatie politiche. Quelle diciassette pagine sono una sorta di j’accuse generale che chiama in causa recenti candidati ed esponenti della parte avversa, e persino l’ex procuratore capo di Genova, dove si fa appello anche al pensiero liberale, «che rappresenta il faro della nostra azione politica» e che vede «nell’attività privata non già un fattore egoistico da contrastare ma una risorsa che, lasciata crescere nel rispetto delle regole, rappresenta un valore aggiunto per la collettività quale primario elemento di sviluppo sociale ed economico».
Sono parole rivolte più all’esterno che ai magistrati inquirenti. Tutto si può dire di Giovanni Toti, ma non che non conosca la politica, sua unica grande passione. In questi giorni non ha letto solo gli atti ma anche i giornali, con grande attenzione. Ogni intervista, ogni passaggio che lo riguarda. E ne ha tratto le sue conclusioni. Con questa memoria difensiva, appare evidente la sua intenzione di rendere più difficile il compito di chi, al di là delle dichiarazioni di facciata, intende prima o poi prendere le distanze da lui. Nonostante i dibattiti e i retroscena, è stato chiaro fin dal primo giorno dopo il suo arresto. Da solo, lui non si dimette. E quella frase lasciata trapelare, sulla necessità di un confronto con i suoi alleati prima di prendere qualunque decisione, adesso appare di senso più compiuto.
Ma al tempo stesso, questa sembra anche essere lo strano caso di una memoria difensiva che non mette la libertà personale del suo firmatario al primo posto nelle priorità. Perché se è vero che una eventuale scarcerazione passa soprattutto per il contenuto delle oltre otto ore di interrogatorio, questo documento di natura politica conferma la ferma intenzione del suo autore di non dimettersi finché non sarà fuori dagli arresti domiciliari. E qui il sentiero torna a farsi stretto. Per uscire, dovrebbero infatti cadere le esigenze cautelari fissate dal giudice per le indagini preliminari, il quale come noto sostiene che Toti, se tornasse libero e ancora in sella come presidente, potrebbe inquinare le prove condizionando testimoni importanti. E inoltre spiega che proprio la carica ricoperta dal principale indagato rende necessaria l’esigenza cautelare, non consentendo il Codice penale una misura più mite come la semplice interdizione per una figura come il presidente di Regione. Toti risponde dicendo che non toglierà il disturbo, e si permette il lusso di sottolineare «carenze ed errori» nell’impianto di indagine. Toti rivoleva la parola a ogni costo. Anche rimanendo agli arresti domiciliari, e forse prevedendo pure di restarci, se l’è presa. Sarà lunga.
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