«Emilia Pérez», storia del boss messicano con l'attrice transgender Karla Sofía Gascón (voto 9)
Il film del regista francese Jaques Audiard ha come protagonista il malvivente che vuole cambiare sesso, nonostante la moglie (Selena Gomez)
Nessuno finora aveva pensato a un musical per raccontare il boss di un cartello della droga in Messico e nessuno aveva immaginato che quel boss potesse cambiare sesso e diventare una donna. Le due idee sono venute insieme a Jacques Audiard che con «Emilia Pérez» ha fatto un deciso scatto in avanti verso la Palma d’oro, staccando i concorrenti visti finora. E non solo per l’originalità ma per l’energia e insieme la grazia che questo inaspettato melodramma sa sprigionare.
A guidare il film è la giovane avvocatessa Rita (Zoe Saldana), ben conscia che in un Paese come il Messico il suo lavoro può essere messo al servizio solo di chi vuole aggirare la legge. E così accetta l’invito del boss della droga Manitas che nonostante una moglie (Selena Gomez) e due figli vuole cambiare sesso: è Rita a informarsi, a organizzare e accompagnare Manitas a diventare Emilia Pérez (Karla Sofía Gascón, già Carlos Gascón nella vita: era sempre lei che, barbuta aveva interpretato Manitas nelle prime scene). Ma a questo punto siamo solo all’inizio della storia perché dopo quattro anni, Emilia vuole tornare in Messico e, spacciandosi per loro zia, avere vicino i figli con l’ex moglie che si crede vedova. Sempre coinvolgendo Rita che ormai è diventata amica e che la accompagnerà nelle molte peripezie che ancora devono accadere e che Audiard racconta con l’aiuto della musica di Camille e Clément Ducol e del coreografo Damiel Jalet. E lo fa senza costruire dei numeri musicali che si «staccano» dalla narrazione ma usando la musica per dare ritmo ai dialoghi e i movimenti coreografici per trasformare i corpi in scenografie viventi: in questo modo l’impressione è quella di un mondo intero che si anima al ritmo delle note e prende forza trasformando le battute in canzoni e le azioni in danze. Con un effetto sorprendente, che il cinema esalta e ingigantisce, regalando allo spettatore un’esperienza inedita e trascinante.
Decisamente all’opposto dell’altro film in concorso, il cinese «Caught by the Tides (Catturato dalle maree)» di Jia Zhang-ke, che racconta dal capodanno 2001 alla fine della pandemia, il legame che si è formato tra una ragazza e quello che lei vorrebbe fosse il suo fidanzato. In una Cina che sembra schiacciata dall’incapacità di affrontare la modernità (certe lunghe sequenze di silenziosi primi piani sono più eloquenti di mille discorsi), Bin Guo abbandona Qiaoqiao per fare fortuna promettendo di chiamarla, ma gli anni passano e non si fa vivo. Lei lo va a cercare vicino alla diga delle Tre Gole, nella provincia di Hubei, ma senza il risultato sperato. E Jia ci mostra perché, in un mondo dove si distrugge il vecchio per far spazio a un nuovo senza anima e dove non servono nemmeno le parole per spiegarsi (i dialoghi si riducono a una manciata) ma bastano anonimi messaggi via cellulare. Ne esce il ritratto di una nazione dove c’è posto solo per il silenzio e la rassegnazione, mentre gli altoparlanti esaltano un futuro che costringerà milioni di cinesi a emigrare in altre terre e dove alla fine i protagonisti non possono che tornare sui loro passi, chi sconfitto nel corpo e chi nell’anima.
