Gabriella, al McDonald's di piazza Duomo da 28 anni: «L’odore delle patatine ti accompagna sempre. Ora anche mio figlio lavora qui»

diGiampiero Rossi

Una vita tra cassa e cucina: «Ho anche vinto una causa con l’azienda e fatto tanti sacrifici. Ma sono affezionata al mio luogo di lavoro, che comunque mi dà da vivere»

Gabriella, dipendente del McDonald’s di piazza Duomo a Milano da 28 anni: «L’odore delle patatine fritte ti accompagna sempre. Ma ora anche mio figlio lavora qui»

Gabriella Buzzanga, 49 anni

Estate 1995. Una ragazza da poco diplomata, bussa alla porta del Burghy di piazza Duomo in cerca di «un lavoretto per guadagnare qualcosa». Poi cambia l’insegna, arriva McDonald’s e quel lavoro diventa più stabile, perché lo stipendio le serve per potersi sposare. Oggi, 28 anni dopo, quel matrimonio è alle spalle, ma il lavoro è ancora quello e Gabriella Buzzanga, 49 anni, è una veterana degli hamburger e delle patatine del più celebre e antico fast food. Ha visto passare generazioni di colleghi e direttori, ha visto cambiare i menu, i prezzi, i clienti e le regole sul lavoro. E più di una volta ha contribuito lei a farle modificare.

Signora Buzzanga, come è nato il suo legame con McDonald’s?
«Andavo a scuola in centro e insieme ai compagni si andava spesso a mangiare in quello che allora si chiamava ancora Burghy di piazza Duomo. Poi, dopo il diploma, nel 1995 insieme a un amico abbiamo pensato di provare a fare domanda con l’idea di guadagnare qualche soldo per un po’. Poi lui è stato scartato perché non voleva tagliarsi la barba, io invece ho iniziato a lavorare».

Quindi non pensava che quello sarebbe stato il lavoro della sua vita?
«Certo che no. Facevo altri colloqui e mi ero iscritta all’università, però al mio fidanzato straniero era scaduto il permesso di soggiorno e allora si ipotizzava già il matrimonio come soluzione definitiva. Soprattutto quando mi hanno proposto l’assunzione stabile: a quel punto avevo un posto fisso, una condizione invidiabile in quel periodo».

Com’era il suo primo contratto con McDonald’s?
«Un part time, deciso da loro e non scelto da me, si chiamava “Formazione lavoro”, 950 mila lire mensili e un corso preparatorio in videocassetta. Era considerato un lavoro per giovani».

Che ambiente ha trovato?
«Una caserma. Chiedevano precisione, ma c’era un’eccessiva rigidità, una gerarchia quasi militare, si viveva nella tensione ma essendo tutti giovani c’era grande solidarietà, spirito di gruppo».

Negli anni il clima è migliorato?
«Non subito. Quando, nel 1999, ho avuto la prima gravidanza e quindi la necessità di andare a fare visite mediche e controlli, era sempre un’impresa conquistare il turno utile o il permesso. Ma, in generale, era per tutti davvero difficile conciliare la vita con il lavoro, nonostante il part time. Tra aperture e chiusure distribuite male, si perdeva il ritmo sonno-veglia, e con i viaggi tra casa e lavoro rimaneva ben poco tempo per vivere. In quel periodo mi veniva da piangere soltanto a vedere la divisa di lavoro».

Quando è arrivato il cambiamento?
«Quando il mio direttore, che aveva apprezzato il mio modo di lavorare, mi ha affidato l’apertura del bar. Quindi lavoravo al mattino dalle 6 alle 10 e una chiusura serale che però precedeva il giorno di riposo. Ho abbellito il bar con piantine e quadri a mie spese, perché comunque quello era il mio ambiente quotidiano di lavoro, e tenevo sempre in tasca centomila lire in monete perché c’erano fasce orarie in cui la cassa era bloccata automaticamente e non avrei potuto dare i resti».

Quindi a quel punto ha trovato le condizioni di lavoro che cercava?
«Sì, ma è durata poco perché al rientro dalla maternità la direttrice, una donna, rispose “non se ne parla neanche” alla mia richiesta di turno compatibile con l’allattamento. Eppure era un diritto stabilito per legge. Così ho dovuto fare causa, e voglio ringraziare ancora oggi l’avvocato che mi seguì gratuitamente, sicuro che avessi ragione. Sono stata una delle prime dipendenti, se non la prima, ad andare in tribunale contro McDonald’s».

E com’è andata?
«Il giudice mi ha dato ragione, perché la legge sul part time prevedeva il diritto ad avere turni fissi. Ha stabilito un risarcimento di 15 milioni di lire, un recupero di giorni di ferie e il turno fisso al rientro. Ma ormai avevo perso ogni sogno di diventare dirigente, e avevo anche iniziato l’iter, e poi per ritorsione mi allontanarono da piazza Duomo e mi mandarono in Paolo Sarpi, in teoria per un periodo ma poi si dimenticarono di me e fui io a reclamare il ritorno alla mia sede di lavoro».

Un continuo braccio di ferro?
«Io posso raccontare la mia esperienza, che si è complicata nuovamente con l’arrivo del secondo figlio e la successiva gestione dei fine settimana dopo la separazione da mio marito».

Quindi il matrimonio per cui aveva deciso di iniziare quel lavoro è finito, ma il lavoro è rimasto?
«È andata così e il bello è che soltanto adesso, dopo 28 anni, mi è stata offerta la possibilità di arrivare a 30 ore settimanali».

Quanto guadagna?
«Adesso 1.100 o poco più, prima erano 950 euro mensili. Non arrivo certo a fine mese. Faccio qualche lavoretto  quando posso, ma comunque non basta mai. Durante la pandemia ho dovuto appoggiarmi anche all’aiuto offerto dalla parrocchia. Per sostenere l’economia familiare, anche mio figlio minore è venuto a lavorare da McDonald’s».

Com’è cambiato il suo lavoro in questi anni?
«È diventato molto più tecnologico, oggi sono molto ridotti gli sprechi, nell’organizzazione interna tutti fanno tutto, a rotazione: la postazione più pesante è la cassa perché avere a che fare con i clienti a volte può essere pesante, quella più gradevole è la cucina, tra i colleghi, dove si collabora come una squadra».

E che consigli dà ai colleghi giovani?
«Tenga conto che non sono l’unica ad avere così tanta anzianità di McDonald’s, in Duomo: il 50 per cento dei lavoratori ha più di vent’anni alle spalle. E ai giovani diciamo che devono cercare di crescere, di fare esperienze, ma poi noto che sono loro stessi a mettere sulla bilancia quello che portano a casa da lavoro e quanto devono sacrificare di vita. Ciascuno fa le sue scelte, ma ne ho visti diversi andarsene dopo poche settimane proprio con queste motivazioni. Ma io voglio bene ai miei colleghi e sono affezionata al mio luogo di lavoro, che comunque mi dà da vivere. Tra noi poi c’è spirito di gruppo, forse un po’ di aria di caserma è rimasta, per esempio nel rituale di saluto a chi se ne va: un gavettone con l’acqua dei cetrioli e delle cipolle».

Ma lei mangia da McDonald’s?
«Certo, è successo, anche se nel tempo ho modificato la mia dieta a prescindere. Però va detto che nel menu le insalate ci sono sempre state».

E le patatine fritte?
«Quello è l’odore che ti accompagna sempre, ogni tanto ho la sensazione di sentirlo anche dove non c’è». 

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13 marzo 2024

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