
“In Libia ti fanno dimenticare di essere umano”. Torture, stupri, violenze e abusi: parlano i sopravvissuti all’inferno dei lager
“Vorrei parlare alle donne che hanno subito abusi sessuali, a cui hanno strappato la dignità, l’anima, la salute, perché anche io sono una di loro”. Janine legge da un quadernetto verde dalle pagine stropicciate e trema. A Palermo c’è il sole, dicembre regala temperature da primavera inoltrata, ma tra quelle righe scritte in calligrafia ordinata inciampa, respira, sembra cadere, scandisce, si ferma. E torna indietro. Lontano dalle palme e dalle panchine di villa Giulia, lontano dall’Italia in cui ha ricominciato a vivere, lontano da quel bambino che nascerà e che non sa ancora se sarà maschio o femmina. “Sarà speranza e questo basta”. Perché Janine è una sopravvissuta. È stata sequestrata, venduta, abusata. È stata prigioniera per due anni insieme al marito Robert “e ogni giorno ho pensato che sarebbe stato l’ultimo”. E adesso parla per la prima volta di quell’inferno, “di quelle cicatrici che non posso e non voglio dimenticare”, che insieme agli psicologi di Medici senza frontiere ha imparato a leggere, a chiamare per nome: tortura.

Trecce lunghe, viso tondo, ventisei anni appena ma occhi pieni di dolori antichi, sedimentati, Janine è una delle 194 pazienti passate per il progetto che Msf ha sviluppato, prima in collaborazione con l’Asp adesso insieme al Policlinico universitario, e che si avvale del supporto di Cledu, Clinica per i diritti umani, per aiutare chi ha subito violenze e abusi sistematici a sopravvivergli. Delle donne in cura è l’unica a parlare. “Alle mie sorelle vorrei dire: non è colpa nostra. Anche se ce lo hanno fatto credere, anche se – mormora – abbiamo finito per crederci”. Con le mani paffute si accarezza il pancione. “Questa volta è diverso, questa volta sono felice. La prima ero angosciata, non sapevo se quello che aspettavo fosse figlio del mio compagno o degli uomini che mi sono passati addosso”.
In Libia Janine era una cosa, prelevata quotidianamente per soddisfare le voglie di altri. “A volte mi tornano in mente i loro volti, le immagini di quello che mi hanno fatto, di quello che mi hanno costretto a fare”. E lei, spiega, non si astraeva, non si rifugiava in un angolo nascosto della mente per scappare all’orrore che mai avrebbe immaginato quando giovanissima commessa in un negozio vicino ad un’università in Camerun ha conosciuto e si è innamorata di quello studente di tre anni più grande che sognava di fare l’imprenditore.. “Dovevo esserci per continuare a sperare”. Ancor più forte quando il bambino è nato ed è diventato motivo in più per imporle sevizie di ogni tipo. “Figlio di stupri? Figlio di mio marito? – si chiede forse dando voce a mostri che a volte ancora la visitano - Soprattutto figlio mio”.
Ha nome italiano perché in un ospedale siciliano è rinato, sgambetta felice per il parco mentre Robert ci gioca e lo rincorre, lui tende le braccia e sorride. Ha poco più di due anni ed è un sopravvissuto anche lui. Quando il barchino su cui hanno tentato la traversata si è ribaltato, sono finiti tutti in acqua. “Ho ricordi frammentati, sento voci che si accavallano, quella di un uomo che dice ‘resistete, verrà qualcuno a salvarci’, quella di Robert che terrorizzato urla ‘il bambino ha gli occhi chiusi, non respira più’ – mormora - Ho deciso che dovevo sopravvivere anche solo per piangere mio figlio, ma ho potuto riabbracciarlo vivo”.

Janine con il mare ha iniziato a fare pace. Vive in Sicilia e qualche mese fa per la prima volta è tornata su una spiaggia. Robert no. “Ho paura. Di quello che potrebbe succedere a me o ad altri, di non poter fare niente, che mi torni in mente tutto”. Adesso sono molte le cose di cui ha timore. “I viaggi, la macchina, la nave, l’aereo, i cambiamenti”. Cerca pace e vuole mettere ordine. Ci sta provando con gli psicologi e i mediatori di Msf e con un libro che inizia a prendere forma “ed è per me, per i miei fratelli africani, per gli europei che non immaginano neanche cosa sia la Libia. Non è un Paese per esseri umani. In carcere vieni trattato come un animale, anzi no c’erano cani trattati meglio. Per loro sei spazzatura da buttare nella pattumiera quando non serve più”.
A cosa? A lavorare come schiavo in un cantiere, a soddisfare le voglie di qualcuno, come strumento di ricatto per chi è rimasto fuori. “Prima di allora mai avrei immaginato che un essere umano potesse arrivare a ridere, ballare, ascoltare contento la musica mentre tortura, stupra, schiavizza un suo simile”. Non abbassa mai gli occhi Robert, neanche quando racconta di quei due anni d’inferno in un lager. Solo diventano duri, freddi quando ricorda e sibila: “come fai a far capire che c’è davvero qualcuno che è in grado di bastonare, mutilare, bruciare mani, braccia, rompere ossa e poi scherzare, ringraziare dio ed essere felice?”.
Sono cose che ha visto e vissuto. Il suo ginocchio destro forse non tornerà mai più quello dii prima, le bastonate arrivavano sempre lì, sempre nello stesso punto. E dopo anni di stupri regolari, cibo e acqua considerati premio e non necessità, le infinite ore in cantiere a lavorare da schiavo per i suoi carcerieri, per poi essere torturato ancora e ancora, spiega, “mi ero convinto che non sarei uscito vivo da lì. Aspettavo solo il giorno in cui sarebbe successo. Ho anche pensato di togliermi la vita io stesso, ma non è così facile anche se il dolore è così grande che hai l’impressione che il cuore si buchi”. Poi la disattenzione di un carceriere ha permesso una fuga che lui e Janine credevano impossibile. “Non sapevamo cosa fare, dove andare, solo che dovevamo correre via da là”.
Abdi la vertigine della fuga l’ha vissuta due volte. Ed era poco più di un bambino. Partito dalla Somalia che aveva 14 anni a stento, in Libia per due volte è finito in un centro di detenzione, prima per due anni, poi per nove mesi. “La prima volta ci hanno lasciati andare perché erano convinti che stessimo per morire, non servivamo più. Qualcuno mi ha portato in ospedale, non ero cosciente, avevo la tubercolosi, un’infezione alla pelle, la febbre, ero denutrito. Ma non so dire cosa sia successo, ho ricordi vaghi. Quando sono tornato in me sono scappato”. Ma non è riuscito a salvarsi dalle milizie, che a Tripoli nuovamente l’hanno intrappolato e lo hanno portato in un lager. Un altro. “Era ancora peggio, non c’era né cibo, né acqua per noi. Quando è scoppiata una rivolta, sono fuggito”. Per tre mesi ha lavorato per uno dei passeur, “pulivo i compound dove veniva ospitato chi aspettava la partenza”. In cambio ha ottenuto un posto su uno dei cenci che attraversano il Mediterraneo. Era inverno, le onde erano alte, “abbiamo passato tre giorni in acqua prima che Sea Watch3 ci soccorresse”. In Italia è arrivato all’alba del nuovo anno.
“Noi abbiamo dovuto aspettarne dieci di giorni. Si è rotto il motore, la barca è andata alla deriva. Ho visto le persone morire una dopo l’altra attorno a me”, racconta Kadhou. Non è il suo nome, ma quello di un compagno di prigionia in Libia, “è ancora lì e se i potessi chiedere ai grandi del mondo, ai governi europei di fare qualcosa sarebbe di andare a salvarli. La Libia è una condanna a morte. È difficile uscire, è impossibile starci, è un inferno”. Non aveva soldi per pagare il riscatto che i carcerieri dei lager pretendevano per restituirgli la libertà, non li aveva la famiglia. “Hanno preso un tubo di gomma, lo hanno scaldato fino a farlo sciogliere e poi me lo hanno fatto colare addosso, goccia dopo goccia”, racconta mentre si preme l’addome come se quella ferita pulsasse ancora. “La vita o la morte di una persona dipendevano sempre e solo da Kasoura”, il capo della milizia che governava quella prigione. Un incubo rimasto ricorrente, come l’orrore per quello che è stato costretto a vivere, subire, vedere. “Ho visto gente morire in Libia, gente morire in mare, persone impazzire. Non posso dimenticare, ma voglio lasciarmi tutto alle spalle, provare a sentirmi di nuovo un essere umano”.