Spari alla fermata del bus, tre morti. Hamas torna a colpire Gerusalemme
GERUSALEMME — La calma di Gerusalemme è finita ieri mattina alle 7.40, quando un’auto bianca ha accostato lungo il boulevard Weizman, uno dei principali ingressi alla città, e Murad Nemer, 38 anni, e suo fratello Ibrahim, 30, ne sono scesi imbracciando un M16 e una pistola: hanno aperto il fuoco contro le persone che a quell’ora affollavano la fermata del bus e ucciso tre cittadini in poco meno di un minuto. Tanto ci è voluto a due militari di passaggio e a un civile armato per raggiungerli e ucciderli.
Accanto ai cadaveri, sull’asfalto e nell’aiuola vicina alla fermata già teatro lo scorso anno di un attentato, sono rimasti sei feriti. Poco dopo è arrivata la rivendicazione di Hamas, che ha definito l’operazione una risposta alla morte di due bambini di 8 e 15 anni due giorni fa nel campo profughi di Jenin. Gli attentatori erano stati in carcere con l’accusa di essere affiliati del gruppo, il maggiore per più di dieci anni: erano stati rilasciati un paio di anni fa.
L’attacco è il primo qui dal 7 ottobre e piomba su una città dove l’aria era già irrespirabile. Svuotata dei suoi visitatori, priva delle consuete luci del Natale, controllata ad ogni angolo da poliziotti e esercito, Gerusalemme è – come sempre quando si parla di questo conflitto – un punto caldissimo.
Da qui in passato sono partite le tensioni che avevano scatenato le offensive su Gaza, nei primi giorni si temeva la possibilità di scontri violenti. Non ci sono stati, ma c’è stato l’attacco di ieri per mano di due figli di questa città: i Nemer erano palestinesi di Gerusalemme Est, provenienti dal quartiere di Sur Baher, dove negli ultimi giorni sono tornati a casa molti dei detenuti scarcerati dalle prigioni israeliane.
Ieri il primo ministro Benjamin Netanyahu ha annunciato che la loro casa verrà demolita, operazione che Israele attua normalmente nei confronti di tutti coloro che si rendono colpevoli di atti di terrorismo, ma che in questo caso è destinata ad alimentare il fuoco che già brucia sotto le ceneri.
«Questo attacco è un segnale allarmante. Finora Gerusalemme è rimasta sorprendentemente calma di fronte a quello che accadeva a Gaza, ma questo è il segnale che tutto può cambiare da un momento all’altro. Lo scenario è diverso da quello del passato: non più scontri di massa ma un attacco mirato. Il risultato non cambia. La possibilità che la città esploda è molto reale: se accadesse, cambierebbe completamente l’equazione del conflitto», spiega Daniel Seidemann, anima della ong Terrestrial Jerusalem e uno dei massimi esperti dei fragili equilibri della Città santa.
L’episodio va a inserirsi in una doppia dinamica, già complessa. Quella del conflitto in corso a Gaza, con Benjamin Netanyahu che ieri ha citato l’attacco nel suo incontro con il segretario di Stato Usa Antony Blinken per rivendicare la necessità di andare avanti nell’azione militare.
Ma anche della politica interna, con il ministro di ultra-destra Itamr Ben-Gvir, responsabile della polizia, l’uomo che in queste settimane ha allentato i vincoli necessari per acquistare e portare armi, soffiando sul fuoco della violenza dei coloni armati, che dal luogo dell’attacco ha difeso le sue politiche: «Le armi salvano vite. Lo vediamo giorno dopo giorno. In ogni luogo dove c’è un’arma civili, poliziotti e soldati salvano le persone», ha detto.
Al mondo che fa riferimento ai partiti della destra religiosa come il suo appartenevano le vittime e i feriti: un rabbino di 73 anni, Elimelech Vaserman, la dirigente di una scuola religiosa femminile, Hanna Ifargan, 60 anni, e Libia Vikman, 24. Il luogo dell’attacco è infatti sotto Givat Shaul, uno dei quartieri di Gerusalemme abitati quasi esclusivamente dagli ultraortodossi. Ieri, due ore dopo l’attacco, le maestre dell’istituto femminile della zona hanno portato le loro allieve fuori dalle aule. In ordine sparso, con un’età compresa fra i 12 e 14 anni, decine di ragazzine hanno marciato fino alla fermata del bus portando in mano cartelli dipinti da loro e gridando slogan che ripetevano ciò che c’era scritto: Nekamà, “vendetta”.