Corte Suprema Usa divisa: la sentenza su Donald Trump rispecchia un compromesso
A suscitare indignazione è soprattutto la lentezza procedurale e l’aggiunta di nuovi livelli di verifica che rendono impossibile processare Trump prima del voto
«Questa sentenza concede a Donald Trump tutto quello che aveva chiesto e anche di più, si fa beffe del principio secondo il quale nessuno è al di sopra della legge e ridefinisce l’istituzione presidenziale». Con una Corte Suprema Usa spaccata sul piano ideologico, prima ancora che giuridico, sempre più spesso i magistrati democratici esprimono un duro dissenso rispetto alle sentenze della maggioranza conservatrice.
Stavolta, però, sull’immunità presidenziale chiesta da Trump, il linguaggio delle tre giudici nominate da presidenti democratici (Sotomayor, Kagan e Jackson) è addirittura furioso, fino all’accusa di sovversione delle istituzioni. Eppure la sentenza rispecchia l’ipotesi di compromesso di cui si parla da settimane: riconoscimento dell’immunità totale del presidente per gli atti ufficiali di sua esclusiva pertinenza, ma non per quelli non ufficiali e per quelli nei quali il presidente condivide i poteri col Congresso.
Più che i principi enunciati, a lasciare perplessi è il linguaggio indeterminato della sentenza: la stessa Corte si chiede se quando premeva sul suo vice, Mike Pence, Trump stava esercitando i poteri presidenziali o adottava comportamenti «privati» da capo di un partito politico o da candidato a incarichi pubblici. Così, anziché chiudere il caso, la Corte apre la strada a innumerevoli contestazioni: rinviate alla magistratura ordinaria (con possibilità di successivi, ulteriori ricorsi ai giudici supremi).
Ma a suscitare indignazione è soprattutto la lentezza procedurale e l’aggiunta di nuovi livelli di verifica destinati a rendere, di fatto, impossibile processare Trump per le incriminazioni federali prima del voto del 5 novembre.
Indignarsi ora, però, serve a poco: la manovra dilatoria della magistratura costituzionale dominata dai giudici repubblicani è evidente da molto tempo. Da quando, all’inizio dell’anno, la Corte si è presa due mesi solo per decidere se accettare di discutere il ricorso degli avvocati di Trump. Poi altri due mesi per mettere in calendario l’audizione delle parti. Infine la decisione rinviata all’ultimissima sessione prima della chiusura estiva e costruita in modo tale da costringere la giudice federale di Washington titolare del processo principale contro Trump, a rivedere l’ammissibilità delle accuse alla luce della sentenza della magistratura suprema.
Ora, è vero che Tanya Chutkan, la giudice federale nominata da Obama che presiede questo processo, si è sempre detta determinata ad andare fino in fondo trattando Trump come qualunque altro imputato. Ma è anche vero che lei stessa aveva promesso, una volta che il caso fosse stato rimesso nelle sue mani dalla Corte Suprema, di dare almeno tre mesi agli avvocati delle parti per prepararsi al processo. In più, probabilmente, la Chutkan avrà bisogno di tempo per stabilire quali capi d’imputazione restano in piedi e quali cadono (sicuramente quello relativo agli interventi di Trump sul suo ministero della Giustizia) in base alla sentenza di ieri e a quella di venerdì sull’ostruzione dell’attività del Congresso. Anche se tutto verrà fatto in tempi brevissimi, impensabile iniziare un processo (che durerà tra 6 e 8 settimane) a pochi giorni dalle presidenziali.