Lascia il posto fisso per diventare rifugista: è il più giovane d’Italia. «Né riposi né festivi, ma sono appagato»

diEnrico Pruner

Ruggero Samaden, 23 anni, ha preso in gestione con un amico il rifugio Sette Stelle sul Lagorai a duemila metri: «Cresciuto tra le cime: è una vita dura ma albe e tramonti ripagano di tutto»

Ruggero Samaden (il secondo da sinistra) e Gabriele Andreatta (il primo a destra) con i gestori precedenti

«Scusi se non ho risposto prima, ma stavo finendo di spalare». Nei giorni scorsi ha nevicato e poi ci è piovuto sopra, ghiacciando tutto. Ma a quasi duemila metri «gli imprevisti fanno parte del gioco, mica ci spaventano». Ruggero Samaden, 23 anni di Pergine, con la montagna ha siglato un patto d’amore fin da quando era piccolo. «Cresciuto sulle cime del Lagorai», come racconta, ormai perdona alla montagna la fatica che richiede, e per i suoi «paesaggi spettacolari» è arrivato addirittura ad abbandonare il posto fisso. Quando infatti ha saputo che la Sat, fra il plico di 53 candidature che si è trovata sul tavolo, aveva scelto la sua, ha deciso di stracciare il contratto a tempo indeterminato che lo legava agli uffici della Provincia. Perito agrario e membro del Soccorso alpino, Samaden dal primo maggio gestirà il rifugio Sette Selle insieme a Gabriele Andreatta, di Bedollo e che di anni ne ha solo 22, diplomato al liceo della montagna di Tione e in procinto di diventare accompagnatore di media montagna. Anche lui ha rinunciato al suo lavoro in una Cooperativa a Piné. Il rifugio incastonato a 1.978 metri di quota nella catena del Lagorai, sul dorso della val dei Mocheni, sarà quindi gestito dal duo di rifugisti più giovane d’Italia.

Samaden, ma i giovani d’oggi non sono quelli che non hanno voglia di mettersi in gioco?
«I giovani, almeno quelli che conosco io, non sono di sicuro senza coraggio. Certo però che la passione aiuta il coraggio. Gabriele ed io abbiamo già lavorato al Sette Selle con Lorenzo Ognibeni, l’ex gestore, che ci ha trasmesso questa passione e ci ha insegnato a conoscere la realtà di un rifugio. Insomma, non ci siamo buttati al grido “che bello stare in montagna”. Ci siamo lanciati, è vero, ma con testa. Poi personalmente sono un calcolatore e da quando abbiamo saputo che avremmo gestito il rifugio, quattro giorni fa, stiamo già programmando tutto».

Un classe 2001 e un classe 2002, qual è il vantaggio di essere gestori così giovani?
«Magari non l’esperienza (sorride), ma sicuramente la voglia di fare e l’energia. Abbiamo in mente tanti progetti, come eventi per far conoscere gli sport di montagna da sviluppare intorno al rifugio. Poi abbiamo alle spalle due famiglie competenti nel settore che ci supportano».

È stata una scelta difficile lasciare il posto fisso?
«Lavoravo come tecnico in ambito agricolo per la Provincia, con un contratto a tempo indeterminato. Qualcuno mi ha criticato quando ho lasciato una posizione sicura, ma quella sicurezza non mi appagava a pieno. Adesso farò quello che mi piace».

Nel periodo storico in cui si cerca di guadagnare tempo da dedicare alla vita privata, lei ha scelto un lavoro totalizzante. Pensa che il suo sia un esempio controcorrente? Nessun sabato, nessuna domenica o riposo...
«Né festivi. Ma se hai la passione vale la pena farla diventare la tua vita. Quando sono in città immagino quanto sarebbe bello essere su in rifugio, è una cosa che devi avere dentro. Il mondo della montagna è diverso da quello della città».

In che senso?
«La montagna cambia alle persone il modo di vedere le cose, e in questo deve essere protetta. Il compito del rifugista è proprio questo: non trasformare il rifugio in un albergo, ma trasmettere la passione e la mentalità della montagna a chi frequenta il rifugio».

In cosa consiste questa mentalità?
«Nell’accontentarsi e nel godere di quello che c’è, anche solo di un paesaggio, senza vivere la montagna come un parco giochi».

Ma un rifugio avrà anche i suoi problemi...
«Eccome. Le fonti d’acqua, solo per fare un esempio, o le domeniche di inverno passate a spalare. E i rifornimenti. Con la strada che non arriva fino al rifugio si fa un carico annuale con l’elicottero e il resto si va su a schiena. Rifugio vuol dire fatica, ma la soddisfazione di offrire agli escursionisti un piatto caldo o un consiglio è talmente grande... Anche se le albe e i tramonti basterebbero già a ripagare».

Avete già incontrato qualche difficoltà organizzativa?
«Solo aprire una società ha i suoi costi e ora dovremo rapportarci con i fornitori. Servirà anche valutare il rincaro da applicare ai pasti e creare un business plan. Ma abbiamo già iniziato a imparare».

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30 marzo 2024 ( modifica il 30 marzo 2024 | 08:15)

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