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Industria pesante, paura dei giganti? Ma l’Italia ne ha bisogno per crescere
Una delle probabili conseguenze della vicenda ex Ilva è che gli investitori esteri saranno più cauti sull’Italia, visti i cambi di rotta del socio pubblico che, al di là delle responsabilità di quello privato, hanno portato al divorzio tra lo Stato e Arcelor Mittal. Eppure le grandi imprese servono al Paese, così come i capitali che possono finanziarle: ci vogliono una strategia continuativa e una maggiore consapevolezza del ruolo dell’industria. Lo dice Ferruccio de Bortoli che su l’Economia del Corriere della Sera, in edicola lunedì gratis con il quotidiano, ripercorre tappe e cause del flop di Acciaierie d’Italia. «Grande è brutto, sporco e persino cattivo — scrive de Bortoli —. Una nazionalizzazione dell’ex Ilva è a questo punto inevitabile. Al termine però di un commissariamento straordinario che il governo intende avviare e sulle cui modalità si addensano numerose incognite. O dopo un accordo stragiudiziale tra ArcelorMittal e Invitalia che oggi appare remoto». E ancora: «Il gruppo franco-indiano avrà commesso degli errori, ma non è l’impero siderurgico del male. E piaccia o no all’estero crederanno di più alle loro — giuste o sbagliate che siano — ragioni che a quelle di Invitalia. Il discorso vale ovviamente anche per un investitore italiano». Poi de Bortoli riavvia il nastro del caso Taranto, dallo scudo penale «assicurato al socio estero e poi revocato dal primo governo Conte» alla «commedia di un governo diviso in due, Fitto da una parte e Urso dall’altra». Ne deduce: «Comprensibile che l’incertezza penale e civile sia un ostacolo per gli investitori esteri». E chiosa: «Senza l’acciaio non ci sarebbe stato il miracolo economico, né l’industria automobilistica nazionale, né gli elettrodomestici e via di seguito».