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Iran, urne chiuse per il voto presidenziale dopo la morte di Raisi: ballottaggio tra il riformista Pezeshkian e l'ultraconservatore Jalili
Con oltre la metà dei seggi scrutinati nelle elezioni presidenziali iraniane si profila un testa a testa tra l’unico candidato riformista e il più intransigente tra i conservatori in corsa. Se, come sembra, il risultato verrà confermato il secondo turno di ballottaggio tra i due vincenti di ieri sarà già venerdì prossimo 5 luglio.
Il prossimo presidente che rappresenterà il Paese nel mondo per conto della Guida Suprema sarà uno tra il cardiochirurgo Pezeshkian e il «martire vivente» Said Jalili. Il primo è appoggiato da tutti i pezzi grossi del «partito riformista», ha 70 anni ed è di origini azere come moltissimi iraniani. Pezeshkian è in testa alle proiezioni di voto. Fino a due settimane fa, quando a sorpresa è stato ammesso alla corsa elettorale dal Consiglio dei Guardiani era solo un ex ministro della Salute del più popolare governo della Repubblica Islamica (quello del 2001 del presidente Khatami) e un parlamentare leggermente eterodosso rispetto alla linea dominante. Notevoli le sue dichiarazioni durante le fasi più dure della repressione contro le ragazze del movimento Donne Vita Libertà che si toglievano il velo nell’ambito delle proteste per l’omicidio di Mahsa Amini. «Non picchiatele, non siate violenti». Parole che, però, non ebbero alcun impatto. A distanza di pochi voti, c’è Jalili, il rappresentante conservatore più duro tra i tre rimasti in corsa. Di molto più giovane, ha 58 anni, il «martire vivente» ha combattuto nella guerra Iran-Iraq quando era appena 21enne tra le fila dell’organizzazione paramilitare dei Basij. Erano i più fanatici, i più suggestionati dagli appelli dell’imam Khomeini alla resistenza (e al martirio) nel nome della patria e di Allah. Si racconta che centinaia di ragazzini vennero spediti in prima linea per sminare con i loro corpi i sistemi difensivi allestiti dalle truppe di Saddam Hussein. Alcuni, preoccupati della tradizione islamica che prevede che si entri in paradiso con lo stesso corpo che si ha in vita, si avvolgessero nei tappeti e rotolassero incontro alle mine. In questo modo era più facile per chi arrivava dopo raccoglierli e ricomporre il cadavere. A Jalili andò meglio. Perse solo una gamba. È stato negoziatore capo ai colloqui sull’arricchimento nucleare iraniano dopo che l’americano Donald Trump aveva unilateralmente disdetto il trattato precedente. In paradossale sintonia con Trump, Jalili si è poi sempre opposto a qualunque ripresa del dialogo. L’uomo che sfiderà Pezeshkian al ballottaggio è un intransigente convinto che l’Iran debba guadagnarsi un ruolo di potenza e che l’unico modo sia combattere e costruire l’arma atomica.
Al terzo e quarto posto, molto distaccati, gli altri due contendenti: Mohammed Baker Qalibaf e l’unico clerico Mostafa Pourmohammadi. Entrambi «conservatori», il secondo ha contribuito ad eliminare il primo che era dato alla vigilia come favorito. Qalibaf è stato un popolare sindaco di Teheran quando la città distribuiva posti di lavoro e cambiava faccia diventando una megalopoli moderna con un’infinita rete di autostrade interne e metropolitane. Pragmatico in politica estera, Qalibaf è stato anche generale dei Pasdaran e più volte candidato presidenziale. L’ha rovinato uno scandalo di corruzione su cui il mullah Pourmohammadi ha martellato in tutti i confronti televisivi. Una delle figlie di Qalibaf ha organizzato per gli amici di famiglia una «festicciola» per il nuovo nato ad Istanbul e, come non bastasse in un Paese che sta vivendo una drammatica crisi economica, è tornata a Teheran con 300 chili di bagagli extra sull’aereo. Qualcosa come 15 valige di corredino per il rampollo dell’élite privilegiata della politica islamica. Un colpo di immagine tremendo per il nonno Qalibaf a pochi giorni dal voto.
Ieri il regime ha prolungato l’orario di apertura dei seggi sino a mezzanotte nella speranza di aumentare l’affluenza degli elettori. La partecipazione al voto era considerata dai vertici reali della Repubblica Islamica un risultato ancora più importante rispetto a chi sarebbe stato eletto presidente. Infatti i quattro candidati alle urne erano già stati selezionati tra 80 pretendenti. Li ha ammessi il Consiglio dei Guardiani, un organo non elettivo, ma nominato direttamente dalla Guida Suprema che in questo modo controlla cosa possono o non possono scegliere gli elettori. Democrazia imbrigliata, predeterminata, che non consente alcun candidato in rottura con lo status quo.
Per gli iraniani scottati da anni di repressione, l’ultima violentissima del movimento Donne Vita Libertà, si trattava ieri di decidere se legittimare il regime partecipando al questo voto preordinato oppure astenersi. Meglio una simbolica rivolta o che gli estremisti abbiano tutto il potere? Nel 2021 era andato alle urne per scegliere il presidente solo il 48,8% degli iraniani, quest’anno per il Parlamento appena il 41%. E ieri? Non si sa ancora. La Repubblica Islamica d’Iran, a differenza di ogni altro Paese, non ha diffuso il dato dell’affluenza prima di conteggiare i singoli voti.
La schizofrenia ha dominato la giornata. Le tv di Stato mostravano code di elettori con la carta d’identità in mano. Sui social all’estero scorrevano invece i video di un Iran opposto: seggi deserti e scrutinatori annoiati a bere té. Che i dati di voto e di partecipazione che verranno diffusi siano veri, falsi o manipolati in fondo non è così rilevante. Reale è il dilemma che gli iraniani hanno affrontato. Il Paese è già in guerra con Israele attraverso le sue milizie estere e, soprattutto, ormai è a un passo dalla bomba atomica. Tanta ambizione costa cara: lo sforzo per finanziare Houti e Hezbollah più il peso delle sanzioni occidentali hanno portato l’inflazione al 53%. La classe media si è impoverita. Le proteste del movimento Donne, Vita, Libertà hanno scatenato ancora più repressione. E allora? Meglio ignorare un sistema che non si riesce ad abbattere o mandare al governo qualcuno di meno peggio? A differenza che alle elezioni del 2021 dove aveva vinto l’ultra conservatore Raisi al primo turno, questa volta Il Consiglio dei Guardiani aveva ammesso alla corsa almeno un candidato «riformista», Masoud Pezeshkian. I cambiamenti che ha in mente questo cardiochirurgo non contemplano di intaccare il sistema clerico-militarista al potere. In pratica Pezeshkian è per gli iraniani il miraggio di un’amministrazione quotidiana meno severa e più onesta rispetto a quella degli ultimi tre anni. Un granello di moderazione negli ingranaggi del potere.
L’opposizione all’estero e la premio Nobel in carcere Narges Mohammadi hanno invitato all’astensione per mostrare il malcontento al regime e il distacco tra il governo e il Paese reale al resto del mondo. Chi ha votato ieri Pezeshkian, invece, l’ha fatto pensando di mandare alla presidenza il «meno peggio» nella gestione dell’amministrazione quotidiana, magari capace anche di imporre un po’ di controllo alla polizia della morale che picchia le «mal velate». Ma chi ha votato «riformista» l’ha fatto anche pensando al «Grande Satana» americano e al possibile ritorno di Trump alla Casa Bianca. Ci vorrà un iraniano con la testa fredda per confrontarsi con lui. L’alternativa a Pezeshkian è il conservatore Jalili che da anni propugna lo scontro frontale con tutti, da Israele Piccolo Satana agli Usa Grande Satana.
Le promesse elettorali sono state compatibili con lo status quo del sistema inventato ormai mezzo secolo fa dall’Imam Khomeini: meno corruzione, più aiuto ai poveri, migliore gestione dell’economia, meno o più severità verso il velo. In due settimane di campagna elettorale, tutti i candidati hanno criticato «come vanno oggi le cose», ma contemporaneamente hanno reso omaggio allo scomparso presidente Raisi e soprattutto a colui da cui tutto dipende: la Guida Suprema Ali Khamenei. Quindi? Se le cose vanno male e non si può cambiare chi comanda davvero, a cosa serve il presidente in Iran? Per chi ha votato Pezeshkian serve ad evitare il carcere e magari anche la guerra. Probabilmente non è vero, ma l’unica speranza che gli è rimasta.
Il prossimo presidente che rappresenterà il Paese nel mondo per conto della Guida Suprema sarà uno tra il cardiochirurgo Pezeshkian e il «martire vivente» Said Jalili. Il primo è appoggiato da tutti i pezzi grossi del «partito riformista», ha 70 anni ed è di origini azere come moltissimi iraniani. Pezeshkian è in testa alle proiezioni di voto. Fino a due settimane fa, quando a sorpresa è stato ammesso alla corsa elettorale dal Consiglio dei Guardiani era solo un ex ministro della Salute del più popolare governo della Repubblica Islamica (quello del 2001 del presidente Khatami) e un parlamentare leggermente eterodosso rispetto alla linea dominante. Notevoli le sue dichiarazioni durante le fasi più dure della repressione contro le ragazze del movimento Donne Vita Libertà che si toglievano il velo nell’ambito delle proteste per l’omicidio di Mahsa Amini. «Non picchiatele, non siate violenti». Parole che, però, non ebbero alcun impatto. A distanza di pochi voti, c’è Jalili, il rappresentante conservatore più duro tra i tre rimasti in corsa. Di molto più giovane, ha 58 anni, il «martire vivente» ha combattuto nella guerra Iran-Iraq quando era appena 21enne tra le fila dell’organizzazione paramilitare dei Basij. Erano i più fanatici, i più suggestionati dagli appelli dell’imam Khomeini alla resistenza (e al martirio) nel nome della patria e di Allah. Si racconta che centinaia di ragazzini vennero spediti in prima linea per sminare con i loro corpi i sistemi difensivi allestiti dalle truppe di Saddam Hussein. Alcuni, preoccupati della tradizione islamica che prevede che si entri in paradiso con lo stesso corpo che si ha in vita, si avvolgessero nei tappeti e rotolassero incontro alle mine. In questo modo era più facile per chi arrivava dopo raccoglierli e ricomporre il cadavere. A Jalili andò meglio. Perse solo una gamba. È stato negoziatore capo ai colloqui sull’arricchimento nucleare iraniano dopo che l’americano Donald Trump aveva unilateralmente disdetto il trattato precedente. In paradossale sintonia con Trump, Jalili si è poi sempre opposto a qualunque ripresa del dialogo. L’uomo che sfiderà Pezeshkian al ballottaggio è un intransigente convinto che l’Iran debba guadagnarsi un ruolo di potenza e che l’unico modo sia combattere e costruire l’arma atomica.
Al terzo e quarto posto, molto distaccati, gli altri due contendenti: Mohammed Baker Qalibaf e l’unico clerico Mostafa Pourmohammadi. Entrambi «conservatori», il secondo ha contribuito ad eliminare il primo che era dato alla vigilia come favorito. Qalibaf è stato un popolare sindaco di Teheran quando la città distribuiva posti di lavoro e cambiava faccia diventando una megalopoli moderna con un’infinita rete di autostrade interne e metropolitane. Pragmatico in politica estera, Qalibaf è stato anche generale dei Pasdaran e più volte candidato presidenziale. L’ha rovinato uno scandalo di corruzione su cui il mullah Pourmohammadi ha martellato in tutti i confronti televisivi. Una delle figlie di Qalibaf ha organizzato per gli amici di famiglia una «festicciola» per il nuovo nato ad Istanbul e, come non bastasse in un Paese che sta vivendo una drammatica crisi economica, è tornata a Teheran con 300 chili di bagagli extra sull’aereo. Qualcosa come 15 valige di corredino per il rampollo dell’élite privilegiata della politica islamica. Un colpo di immagine tremendo per il nonno Qalibaf a pochi giorni dal voto.
Ieri il regime ha prolungato l’orario di apertura dei seggi sino a mezzanotte nella speranza di aumentare l’affluenza degli elettori. La partecipazione al voto era considerata dai vertici reali della Repubblica Islamica un risultato ancora più importante rispetto a chi sarebbe stato eletto presidente. Infatti i quattro candidati alle urne erano già stati selezionati tra 80 pretendenti. Li ha ammessi il Consiglio dei Guardiani, un organo non elettivo, ma nominato direttamente dalla Guida Suprema che in questo modo controlla cosa possono o non possono scegliere gli elettori. Democrazia imbrigliata, predeterminata, che non consente alcun candidato in rottura con lo status quo.
Per gli iraniani scottati da anni di repressione, l’ultima violentissima del movimento Donne Vita Libertà, si trattava ieri di decidere se legittimare il regime partecipando al questo voto preordinato oppure astenersi. Meglio una simbolica rivolta o che gli estremisti abbiano tutto il potere? Nel 2021 era andato alle urne per scegliere il presidente solo il 48,8% degli iraniani, quest’anno per il Parlamento appena il 41%. E ieri? Non si sa ancora. La Repubblica Islamica d’Iran, a differenza di ogni altro Paese, non ha diffuso il dato dell’affluenza prima di conteggiare i singoli voti.
La schizofrenia ha dominato la giornata. Le tv di Stato mostravano code di elettori con la carta d’identità in mano. Sui social all’estero scorrevano invece i video di un Iran opposto: seggi deserti e scrutinatori annoiati a bere té. Che i dati di voto e di partecipazione che verranno diffusi siano veri, falsi o manipolati in fondo non è così rilevante. Reale è il dilemma che gli iraniani hanno affrontato. Il Paese è già in guerra con Israele attraverso le sue milizie estere e, soprattutto, ormai è a un passo dalla bomba atomica. Tanta ambizione costa cara: lo sforzo per finanziare Houti e Hezbollah più il peso delle sanzioni occidentali hanno portato l’inflazione al 53%. La classe media si è impoverita. Le proteste del movimento Donne, Vita, Libertà hanno scatenato ancora più repressione. E allora? Meglio ignorare un sistema che non si riesce ad abbattere o mandare al governo qualcuno di meno peggio? A differenza che alle elezioni del 2021 dove aveva vinto l’ultra conservatore Raisi al primo turno, questa volta Il Consiglio dei Guardiani aveva ammesso alla corsa almeno un candidato «riformista», Masoud Pezeshkian. I cambiamenti che ha in mente questo cardiochirurgo non contemplano di intaccare il sistema clerico-militarista al potere. In pratica Pezeshkian è per gli iraniani il miraggio di un’amministrazione quotidiana meno severa e più onesta rispetto a quella degli ultimi tre anni. Un granello di moderazione negli ingranaggi del potere.
L’opposizione all’estero e la premio Nobel in carcere Narges Mohammadi hanno invitato all’astensione per mostrare il malcontento al regime e il distacco tra il governo e il Paese reale al resto del mondo. Chi ha votato ieri Pezeshkian, invece, l’ha fatto pensando di mandare alla presidenza il «meno peggio» nella gestione dell’amministrazione quotidiana, magari capace anche di imporre un po’ di controllo alla polizia della morale che picchia le «mal velate». Ma chi ha votato «riformista» l’ha fatto anche pensando al «Grande Satana» americano e al possibile ritorno di Trump alla Casa Bianca. Ci vorrà un iraniano con la testa fredda per confrontarsi con lui. L’alternativa a Pezeshkian è il conservatore Jalili che da anni propugna lo scontro frontale con tutti, da Israele Piccolo Satana agli Usa Grande Satana.
Le promesse elettorali sono state compatibili con lo status quo del sistema inventato ormai mezzo secolo fa dall’Imam Khomeini: meno corruzione, più aiuto ai poveri, migliore gestione dell’economia, meno o più severità verso il velo. In due settimane di campagna elettorale, tutti i candidati hanno criticato «come vanno oggi le cose», ma contemporaneamente hanno reso omaggio allo scomparso presidente Raisi e soprattutto a colui da cui tutto dipende: la Guida Suprema Ali Khamenei. Quindi? Se le cose vanno male e non si può cambiare chi comanda davvero, a cosa serve il presidente in Iran? Per chi ha votato Pezeshkian serve ad evitare il carcere e magari anche la guerra. Probabilmente non è vero, ma l’unica speranza che gli è rimasta.