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Quando Riva ammansì Gattuso negli spogliatoi del Mondiale
Caro Mario,
Ho conosciuto Riva nel 2002, ai Mondiali in Giappone e Corea. Allora era molto più facile di adesso parlare con i calciatori, e quella spedizione era ricca di personaggi interessanti, da Maldini a Nesta, da Del Piero a Totti. Però il più interessante era lui, Gigi Riva, che era l’uomo di raccordo tra il c.t. Trapattoni e la squadra (la definizione ufficiale era team manager, che lui giustamente non usava mai). Dopo ogni partita, all’uscita degli spogliatoi, si fermava e chiacchieravamo un poco. Un rito ripreso quattro anni dopo in Germania. Non ne è mai uscita un’intervista ampia e bella come quella della nostra Elvira Serra, l’unica giornalista che con Riva aveva una confidenza autentica. Ma quei tanti suoi piccoli racconti rappresentano tasselli di un puzzle che provo ora a unire. Gigi Riva pareva uscito da un western. Faccia squadrata, dura. Uomo combattivo, leale. Sempre cortese, educato. Per la Nazionale e il Cagliari si era rotto la gamba tre volte. La notte prima della finale con il Brasile in Messico non aveva chiuso occhio, «del resto ho sempre dormito poco alla vigilia delle partite importanti». La Federazione aveva deciso di ripartire al più presto per l’Italia, quindi i bagagli vennero preparati prima della partita: Riva aveva comprato un sombrero per ricordo, e non riusciva a chiuderlo nella valigia. «Entrammo in campo un po’ stanchi, forse anche un po’ appagati dalla grande vittoria in semifinale con la Germania», che per quella generazione era quasi la rivincita della guerra. La notte dopo la finale degli Europei — Roma, 1968 — aveva dormito con Dino Zoff in un alberghetto accanto alla stazione Termini, che ora non esiste più. Si sparse la voce e i tifosi li circondarono, dovettero affacciarsi alla finestra per salutare; e non si saprebbe dire chi tra Riva e Zoff fosse più intimidito e imbarazzato. Orfano di padre, era cresciuto in un collegio durissimo, da cui riuscì a farsi cacciare; restò sempre credente, e non era impossibile a Leggiuno trovarlo inginocchiato in una cappella, a pregare. Andò a lavorare poco più che bambino: montava le gettoniere sugli ascensori, al tempo in cui per prendere l’ascensore si infilava una monetina. Poi entrò in fabbrica come operaio. Gli chiesi se fosse vero che scappava per andare agli allenamenti; mi rispose di sì, ma che il padrone lo sapeva ed era d’accordo. Gigi Riva insomma era un uomo splendido. In Giappone era l’unico a parlare a viso aperto con Bobo Vieri, in cui riconosceva il proprio carattere taciturno e la potenza esplosiva che deve trovare una via di sfogo. In Germania Luca Toni disse che era «il miglior psicologo del calcio in circolazione». Riva era arrabbiatissimo con chi aveva attaccato il c.t. Lippi, che stimava molto. A un tratto, mentre conversavamo, venimmo interrotti da Rino Gattuso, che mi indicò: «Ehi tu, vieni un attimo qui». Chi, io? «Sì, proprio tu». Mi avvicinai, un po’ incuriosito e un po’ preoccupato. Ma Riva si chinò a sussurrare all’orecchio di Gattuso, forse per avvertirlo di uno scambio di persona, forse per salvarmi: «Non è lui». Gattuso si irrigidì, guardò Riva, guardò me, mi fece una delle sue carezze burbere, si scusò. Non saprò mai se ero davvero io.
Ho conosciuto Riva nel 2002, ai Mondiali in Giappone e Corea. Allora era molto più facile di adesso parlare con i calciatori, e quella spedizione era ricca di personaggi interessanti, da Maldini a Nesta, da Del Piero a Totti. Però il più interessante era lui, Gigi Riva, che era l’uomo di raccordo tra il c.t. Trapattoni e la squadra (la definizione ufficiale era team manager, che lui giustamente non usava mai). Dopo ogni partita, all’uscita degli spogliatoi, si fermava e chiacchieravamo un poco. Un rito ripreso quattro anni dopo in Germania. Non ne è mai uscita un’intervista ampia e bella come quella della nostra Elvira Serra, l’unica giornalista che con Riva aveva una confidenza autentica. Ma quei tanti suoi piccoli racconti rappresentano tasselli di un puzzle che provo ora a unire. Gigi Riva pareva uscito da un western. Faccia squadrata, dura. Uomo combattivo, leale. Sempre cortese, educato. Per la Nazionale e il Cagliari si era rotto la gamba tre volte. La notte prima della finale con il Brasile in Messico non aveva chiuso occhio, «del resto ho sempre dormito poco alla vigilia delle partite importanti». La Federazione aveva deciso di ripartire al più presto per l’Italia, quindi i bagagli vennero preparati prima della partita: Riva aveva comprato un sombrero per ricordo, e non riusciva a chiuderlo nella valigia. «Entrammo in campo un po’ stanchi, forse anche un po’ appagati dalla grande vittoria in semifinale con la Germania», che per quella generazione era quasi la rivincita della guerra. La notte dopo la finale degli Europei — Roma, 1968 — aveva dormito con Dino Zoff in un alberghetto accanto alla stazione Termini, che ora non esiste più. Si sparse la voce e i tifosi li circondarono, dovettero affacciarsi alla finestra per salutare; e non si saprebbe dire chi tra Riva e Zoff fosse più intimidito e imbarazzato. Orfano di padre, era cresciuto in un collegio durissimo, da cui riuscì a farsi cacciare; restò sempre credente, e non era impossibile a Leggiuno trovarlo inginocchiato in una cappella, a pregare. Andò a lavorare poco più che bambino: montava le gettoniere sugli ascensori, al tempo in cui per prendere l’ascensore si infilava una monetina. Poi entrò in fabbrica come operaio. Gli chiesi se fosse vero che scappava per andare agli allenamenti; mi rispose di sì, ma che il padrone lo sapeva ed era d’accordo. Gigi Riva insomma era un uomo splendido. In Giappone era l’unico a parlare a viso aperto con Bobo Vieri, in cui riconosceva il proprio carattere taciturno e la potenza esplosiva che deve trovare una via di sfogo. In Germania Luca Toni disse che era «il miglior psicologo del calcio in circolazione». Riva era arrabbiatissimo con chi aveva attaccato il c.t. Lippi, che stimava molto. A un tratto, mentre conversavamo, venimmo interrotti da Rino Gattuso, che mi indicò: «Ehi tu, vieni un attimo qui». Chi, io? «Sì, proprio tu». Mi avvicinai, un po’ incuriosito e un po’ preoccupato. Ma Riva si chinò a sussurrare all’orecchio di Gattuso, forse per avvertirlo di uno scambio di persona, forse per salvarmi: «Non è lui». Gattuso si irrigidì, guardò Riva, guardò me, mi fece una delle sue carezze burbere, si scusò. Non saprò mai se ero davvero io.