Nei college Usa un vento di censura e odio anti-ebraico contagia gli studenti

Ad Hunter College, a ridosso dell’East Side di Manhattan, il grido rauco Allah Akbar, Dio è grande, rimbalza fra i grattacieli e la linea 6 della metropolitana, mischiato alla nenia religiosa islamica Takbir, invocante la gloria di Allah. Il gruppo Palestine Solidarity Alliance non convoca molti manifestanti, ma megafoni, kefiah sul volto, scarponi militari, slogan in difesa dei Martiri a Gaza e per la cacciata dei sionisti dall’Università pubblica, dove un tempo insegnavano il critico Alfred Kazin e il pittore Robert Motherwell, fanno il giro del mondo. Per Emma Green, inviata del settimanale liberal The New Yorker, la manifestazione, con la vernice rossa al posto del sangue e il dito medio mostrato a chi dissente, è uno dei tanti raduni pro Mohammed Dief, il comandante delle Brigate Qassam di Hamas, fino a chiedere la fine dello Stato di Israele e il ritorno allo status quo pre 1948, rivendicando violenze e stupri del 7 ottobre. Un reportage del Jerusalem Post sui picchetti a Manhattan inorridisce l’opinione pubblica in Israele, abituata a considerare City University, di cui Hunter è parte, e i suoi campus familiari da un secolo.

I volantini con i volti degli ostaggi nei tunnel di Hamas, non solo ad Hunter ma in altri college, sono deturpati con le svastiche, io ne ho staccati un paio in una università top. Israele=Sionismo=Genocidio a Gaza è graffito sui muri e, come in Italia nel terrorismo Br e neofascista, ancora celebrato online e da scrittori, l’avversario va dipinto da mostro, per negargli diritto di parola e umiliarlo.

I conservatori repubblicani provano, spesso con successo, a mescolare l’intolleranza crescente degli atenei, con il movimento per i diritti e l’inclusione, e le frange estreme costano caro nei consensi a democratici e a Biden, nella tensione quotidiana. Una consigliera comunale a Brooklyn, Inna Vernikov, provoca un corteo pro Hamas con una pistola, poi rivelatisi scacciacani. Mostrando maturazione e ambizioni future, la leader di sinistra Alexandria Ocasio-Cortez ha denunciato Hamas e i suoi paladini, pur condannando Netanyahu e chiedendo una tregua.

Gli studenti gridano “siamo eredi di Fanon e Said”, studiosi dei movimenti anticoloniali, ma Rashid Kalidi, che a Columbia University ha ereditato la cattedra di Said, li ammonisce: «Nessuna liberazione vince, se non convince i cittadini delle grandi potenze, Fanon non giustificava la violenza, argomentava». Ma nelle aule Usa, come in quelle britanniche, con la Union of Jewish Students di Londra costretta a chiedere solidarietà dopo minacce pro Hamas, argomentare non è Spirito del Tempo, aggressività social e miliziani duri sono tecnica dominante.

A Barnard College, dall’altra parte del Central Park, il dormitorio gemello della Columbia su Broadway vede porte e finestre decorate da sticker multicolori “Dal Giordano al mare Palestina!”, “Genocidio sionista in Tv”, “Sionisti terroristi”. I janitor, addetti alle pulizie, li staccano la notte e gli studenti si appellano al I emendamento della Costituzione che tutela libertà di parola appiccandoli ancora. A Berkeley, California, Columbia e in altri campus, gli ebrei vengono dipinti da skunk, “puzzole”, e le loro assemblee deturpate con sostanze maleodoranti, mentre gli studenti di giornalismo che provano a intervistare dimostranti filo Hamas ricevono diffide dalla amministrazione. E a Barnard e Columbia, gruppi filopalestinesi lamentano «la censura della macchina del silenzio imperialista».

La guerra a Gaza apre un esame di coscienza nazionale per una generazione di studenti e docenti. Al Congresso, un’audizione polemica dopo l’attacco di Hamas, ha costretto alle dimissioni la presidente dell’Università di Pennsylvania Elizabeth Magill e la collega di Harvard Claudine Gay, incapaci di coniugare libertà di pensiero e denuncia storica di massacri e stupri. Il giurista di Princeton Robert George è pessimista, «stiamo perdendo la fiducia dei cittadini», e i dati ne corroborano la fosca diagnosi: secondo un sondaggio della Foundation for Individual Rights Harvard e Pennsylvania sono agli ultimi posti nelle classifiche per la libertà di parola e, nelle cinque migliori università Usa, la metà degli studenti ritiene lecito azzittire le voci di chi dissente, mentre un preoccupante 30% giudica lecito, in alcuni casi, perfino il ricorso alla violenza contro assemblee di oppositori.

Un clima che fa temere al commentatore del Wall Street Journal Lance Morrow che «l’odio politico degenererà in tumulti di piazza? L’atmosfera nell’America di Biden e Trump puzza di Germania di Weimar e di Chicago 1968», quando gli scontri con la polizia del sindaco Daley, intorno alla Convenzione democratica, costarono un morto, 800 feriti e anni di processi. Nell’ultimo numero, The Economist minimizza snob, — «sono le università d’élite, con gli studenti privilegiati, a protestare, in quelle popolari si pensa a studiare» — ma sbaglia, Hunter College e City University a New York, da sempre, sono atenei working class di lavoratori, operai, immigrati, come Napoli, Federico II.