Vi ricordate Felipe Melo? A 40 anni ha vinto la Champions del Sudamerica. Da Milito a Veron, storia dei “vecchietti" che continuano ad alzare trofei

Quando più non te lo aspetti, quando i chilometri percorsi sono ormai troppi, quando l’anagrafe ti gioca contro e chiunque sia in campo corre ormai più veloce di te. Sono le storie di calciatori che hanno vinto a un passo, ma anche oltre, la soglia dei quarant’anni: fino all’ultimo respiro rimasto, con l’ultima volata sulla fascia, chiudono la carriera alzando un trofeo, che era un po' come per i pugili ritirarsi da imbattuti, quando la boxe odorava ancora di mito, cuoio e sudore.
Non succede spesso, perché giocare ad alto livello nel calcio al traguardo degli “anta” è dura, ma succede. E spesso è una storia da raccontare, perché sa di rivincita. Ed è quello che è appena accaduto in Coppa Libertadores, la Champions sudamericana di cui si parla poco e la si vede ancora meno, almeno qui in Europa. Ma che regala sempre racconti da tramandare soprattutto per via orale.

2023 Eurasia Sport Images
2023 Eurasia Sport Images 

Felipe Melo, il brasiliano dal colpo “proibito”

Nelle foto dei festeggiamenti lo si intravede piangere, perché ha le mani a coprire il volto rigato di lacrime: Felipe Melo, detto il Comandante per il carattere a dir poco impetuoso, ha pianto sia durante i festeggiamenti – che sarebbe normale - sia durante gli inni prima della partita che la sua Fluminense ha vinto contro il Boca. Non una vittoria qualunque e non solo perché ottenuta a 40 anni e cinque mesi. Ma perché una delle squadre più famose del Brasile la Libertadores non l’aveva mai vinta. Una doppia rivincita per un centrocampista che in Italia il segno lo aveva lasciato soprattutto sulle caviglie degli avversari (del resto da giovane praticava il jiu jitsu), portando gli arbitri a estrarre cartellini a raffica, i tifosi avversari a seppellirlo di improperi e i critici di insufficienze in pagella. Ma solo in Serie A (Fiorentina, Juventus, Inter) non si è imposto: al Galatasaray ha vinto tutto, così come al suo ritorno in Brasile nel 2017. Un campionato e due Libertadores con il Palmeiras e poi la Coppa alzata il 5 novembre scorso con la maglia a strisce bianca verde e viola della “Flu”. Accanto a lui, tra un pianto e un altro, lo abbracciava Marcelo, tornato solo pochi mesi prima a Rio de Janeiro dall’Europa: ma avendo “solo” 35 anni la sua carriera potrebbe essere ancora lunga. E per chi ha cinque Champions con il Real Madrid nel palmares non si è trattato di una rivincita, semmai di una conferma.

Dino Zoff alza al cielo la coppa del mondo vinta a 40 anni

Dino Zoff alza al cielo la coppa del mondo vinta a 40 anni

 

Zoff sfida e controsfida al Destino

Ma anche per i campionissimi, vincere a un passo dal ritiro non è sempre così banale. Alla fine di una carriera carica di trofei potrebbe sembrare prassi quasi dovuta. Pensate a Zlatan Ibrahimovic che festeggia sul pullman scoperto del Milan, con il sigaro in bocca, il suo dodicesimo scudetto in quattro diversi campionati europei a 41 anni. Ricordiamoci di Ryan Giggs, 23 stagioni in Premier tutte nel Manchester United che vince il suo ultimo campionato a 40 anni (e 22 presenze) diventando il calciatore britannico più titolato di sempre (13 scudetti). Poi c’è Lionel Messi che a 36 anni si prende il suo ottavo Pallone d’Oro grazie al mondiale con l’Argentina prima di andare a giocare e segnare - quasi da fermo - in quel luna park per ricchi del campionato di soccer made in Usa.

Ma vincere non è scontato nemmeno per chi si è conquistato un posto nella Walk of Fame, soprattutto se deve sfidare il Destino. Lo sa bene Dino Zoff che a 40 anni e 4 mesi vince il Mondiale ’82 in Spagna, fermando sulla riga un Brasile di pura spettacolarità, talmente specchiato nella sua bellezza di gioco grazie a un centrocampo tra i più forti di sempre (Junior, Cerezo, Zico, Falcao, Socrates) che ritiene antisportivo schierare un centravanti e un portiere degni di questo nome.


Ma non è tanto questo: è che quattro anni prima al mundial in Argentina era stato dato per finito – o come minimo “cecato” – per aver preso due gol da casa sua in semifinale e finale per il terzo posto. E siccome agli Dei del calcio piace vincere facile, l’estate dopo quello che hanno dato tolgono: e Zoff si fa sorprendere da un gol di Felix Magath tedesco di Amburgo che vale una delle sette finali perse dalla Juventus (con un tiro non proprio impossibile).

Maldini e i fantasmi di Istanbul
E se Paolo Maldini la sera prima di coricarsi non teme di sognare i fantasmi di Istanbul, lo deve a quello che è poi accaduto, sull’altra sponda dell’Egeo due anni dopo. Nel 2005 il Milan forse più invincibile di sempre alla fine del primo tempo è sopra di tre gol contro il Liverpool. E Maldini, che ha già 38 anni, segna la prima rete. Ma per una manciata di minuti a inizio ripresa la macchina perfetta di Carlo Ancelotti si inceppa e si fa raggiungere. Sono gli unici minuti non dominati dai rossoneri, che inevitabilmente, persi in un labirinto di rimorsi e rimpianti, perdono ai rigori. Due anni dopo, il Destino (che ha ancora le sembianze del Liverpool) bussa di nuovo alla porta di Paolo fu Cesare (il primo capitano del Milan ad alzare la Coppa con le orecchie nel ‘63): un gruppo di campioni sul Viale del tramonto capisce che è l’occasione della vita. E non se la fa sfuggire, anche per permettere a Maldini di addormentarsi sereno tra le sue cinque Champions.

Diego Milito con la maglia del Racing Avellaneda

Diego Milito con la maglia del Racing Avellaneda

 

Milito, il principe di Avellaneda
Non c’è regola che non abbia la sua eccezione. In questo caso, viene dall’Argentina e risponde al nome di Diego Alberto Milito, perché quando vince al limitare della fine carriera è ancora lontano dai 40 anni, ma non troppo. E’ detto el Principe per la sua eleganza, l’incedere regale verso la porta avversaria che si traduce in 255 gol su 606 partite tra i professionisti, ma anche per la sua somiglianza con il grande uruguagio Enzo Francescoli, che aveva lo stesso soprannome. Ma solo due squadre gli permettono di alzare trofei: l’Inter del triplete e il Racing. E qui scatta l’eccezione. Quando Milito, dopo 10 anni in Europa, torna a casa lo fa per una scelta di cuore. Ha “soltanto” 35 anni: avrebbe potuto spiaggiarsi in Arabia per guadagnare gli ultimi milioni, ma preferisce chiudere la carriera per i colori biancazzurri dell’Academia, come viene chiamata la squadra di Avellaneda, regione di Buenos Aires. Uno dei cinque grandi club d’Argentina. Peccato che non vinca mai: tanto che essere tifosi del Racing è diventato una religione (e una fede non si discute) in cui si innesta lo stoicismo (per sopportare gli sfottò di tutti gli altri tifosi che a turno vincono qualcosa). Dopo il 1966, ha festeggiato solo due campionati ed entrambi hanno visto tra i protagonisti chi se non Milito. Il primo nel 2001, festeggiato come una liberazione, il secondo vale doppio, forse triplo perché a guidare l’attacco con tutta la sua esperienza maturata in Europa c’è lo stesso Principe di 13 anni prima. Dopo la vittoria ai tifosi potrebbe chiedere qualsiasi cosa ora che non potranno più essere sbeffeggiati a sangue: c’è chi chiede al municipio di intestargli una via, altri che raccolgono fondi per dedicargli una statua in bronzo. Lo avevano capito subito, già da come si era presentato nella sua prima partita dopo il ritorno in Argentina, quando si prese la responsabilità di tirare il rigore poi decisivo per il Racing, cancellando così il rigore sbagliato nell’ultima partita all’Inter. Principe si nasce e Milito immodestamente lo nacque.

Juan Sebastian Veron mostra la maglia dell'Estudiantes. Anche suo padre aveva militato e vinto in quella squadra

Juan Sebastian Veron mostra la maglia dell'Estudiantes. Anche suo padre aveva militato e vinto in quella squadra

 

La famiglia Veron, di padre in figlio

E che dire di Juan Sebastian Veron? Non gli è bastato vincere in tre campionati diversi, sulle due sponde dell’Atlantico. Dopo aver giocato negli anni ’80 – con eleganza mista a ferocia determinazione - per lo più in Italia (scudetto con Lazio e Inter), a 31 anni torna all’Estudiantes, la squadra dove aveva esordito da professionista a 18 anni. Questione di famiglia: sua padre Juan Ramon, detto la bruja, ne era stato uno degli assi portanti negli anni ’60, con tre coppe Libertadores in bacheca e una Intercontinentale nel ’68 contro il Manchester United di Bobby Charlton e George Best. Una storia di incroci in cui perdersi: prima di tornare in Argentina Juan Sebastian (la brujita) aveva vinto la Premier proprio con i Red Devils, facendo coppia a metà campo con Scholes e Van Nistelrooji capocannoniere.
Gioca fino a 39 anni, vincendo due campionati e la Libertadores a quasi 35 anni contro i brasiliani del Cruzeiro: ma soprattutto alzando la coppa come suo padre 39 anni prima. Ma Veron, infaticabile a centrocampo, poteva accontentarsi? A tre anni dal ritiro - e dopo esserne diventato presidente – stacca le scarpette dal chiodo, e indossa per un'unica ultima volta la maglietta a strisce biancorosse dell’Estudiantes. La sua vittoria arriva contro il Barcellona Guayaguil nella fase a gironi della Libertadores: gioca per un’ora e quando viene sostituito alza il suo ultimo trofeo: a 42 anni diviene il calciatore argentino più anziano di sempre in una competizione internazionale. Perché fin quando avrai voglia di correre dietro la palla, saltare l’avversario che ti vuole stendere e respirare l’odore dell’erba, magari appena tagliata, avrai sempre vent’anni.