Robot, lo chiamiamo così da un secolo e conosciamo da millenni

È straordinario come le parole che sono entrate di prepotenza nel nostro linguaggio di base possano essere nello stesso momento molto recenti come nascita, molto antiche come significato e molto indifese rispetto al nostro modo spregiudicato di usarle. Ma siamo umani, l’errore fa parte della nostra natura, altrimenti saremmo robot.

Sempre grati al teatro. La parola robot è stata inventata dal drammaturgo ceco Karel Capek, nel 1920, nella sua opera teatrale R.U.R. – Rossumovi univerzàlnì roboti, vale a dire «I robot universali di Rossum». Questo Rossum è uno scienziato chi ha inventato una sostanza in grado di dare vita alla materia. Sarà poi suo nipote a creare delle macchine che hanno l’aspetto degli uomini e che possono lavorare al loro posto. Karel Capek per dare loro un nome sceglie il termine robot, dalla parola robota che nella sua lingua significa schiavitù. E leggendo la sua opera è facile capire la scelta: senza lavoro la società precipita all’indolenza e nella catastrofe mentre i robot, progettati un po’ troppo simili agli uomini si ribellano alla schiavitù e sterminano i loro creatori.

Due piccole considerazioni in premessa. Se l’idea di dare vita ad una materia inerte vi ricorda qualcosa, beh avete perfettamente ragione. Dalla mitologia alla letteratura questo è stato un tema che ha straordinariamente affascinato gli uomini: pensiamo a Prometeo, un Titano ribelle che nelle Metamorfosi di Ovidio plasma gli esseri umani dalla creta. In fondo anche nella Bibbia l’uomo viene creato da Dio prendendo del fango e soffiando nelle sue narici un alito di vita. In letteratura è impossibile non pensare al romanzo Frankenstein, scritto dalla scrittrice britannica Mary Shelley tra il 1816 e il 1817 intitolato al nome dello scienziato che nella finzione letteraria riesce a dare vita ad una forma inanimata. Seconda considerazione: se nel testo di Karel Capek, trovate elementi delle paure che accompagnano le discussioni del nostro tempo sull’ intelligenzia artificiale, avete ragione un’altra volta ed è un ottimo motivo per indagare con attenzione una parola come robot.

A cosa accidenti pensava Karel Capek quando l’ha creato? Quante volte ci piacerebbe poter raggiungere gli autori di un’opera letteraria o di un dramma teatrale e tempestarli di domande per conoscere l’origine delle loro storie. Capek è morto il giorno di Natale del 1938 eppure qualche risposta possiamo trovarla grazie all’instancabile lavoro di ricerca di un giornalista colto e curioso come Massimo Sideri, che ha scovato le dichiarazioni di Capek sull’«Evening Standard» del 2 giugno 1924, in cui spiega la nascita di un lemma destinato a cambiare la storia della tecnologia. Leggiamolo: «I ROBOT sono il risultato di un viaggio in tram. Un giorno, per andare al centro di Praga, ho dovuto prendere un tram di periferia che era fastidiosamente affollato. L’idea che le condizioni di vita moderne abbiano reso le persone indifferenti alle più semplici comodità della vita, mi ha atterrito. Erano ammassati lì dentro e persino sugli scalini del tram non come pecore, ma come macchine. È stato in quel momento che ho iniziato a riflettere sugli uomini come se fossero macchine, invece che individui, e per tutto il viaggio ho cercato un termine in grado di definire un uomo capace di lavorare, ma non di pensare. Questa è l’idea espressa dalla parola ceca robot».

Genesi di una intuizione. Scrive Massimo Sideri nel pubblicare testo: «Una intuizione quella di Čapek che, al di là della piega presa poi dalla storia con la nascita degli androidi, rimane una metafora insuperata della modernità: quante volte ci siamo sentiti come macchine, prigionieri dei ritmi della società che noi stessi abbiamo costruito intorno a noi? Potremmo dire: Noi, Robot. Ma come in un classico gioco di specchi il sogno letterario di un uomo meccanico gli ha poi dato effettivamente vita». Ora prendete appunti. Questo testo è uscito nella newsletter «One More Thing» su scienza e innovazione che Massimo Sideri cura per il Corriere della sera. Per iscriversi basta cliccare qui. Naturalmente potete non iscrivervi e non leggerla, ma non avete idea di quello che vi perdete.

Torniamo ai robot e alle origini. Se foste già iscritti alla newsletter di Massimo Sideri avreste letto – detto meglio – quello che cercavo di spiegare sulle origini lontanissime della suggestione che i robot ci suscitano. Scrive Sideri: «Per un diffuso malinteso siamo abituati a pensare alla tecnologia come a un’invenzione del Novecento. Il Secolo Breve è stato senza dubbio anche il Secolo dell’high-tech. Dei razzi, della conquista della Luna, degli stessi robot — prima nei romanzi e poi nelle fabbriche — dei computer (Olivetti) e di internet. Eppure le idee “quasi platoniche” di queste stesse tecnologie accompagnavano l’umanità già da tempo. Il più antico calcolatore meccanico conosciuto è la macchina di Anticitera del XXI secolo avanti Cristo: era in grado di calcolare la posizione dei corpi celesti. L’abaco risale al 150 avanti Cristo. Mentre il primo “software” è del 1842 quando la contessa di Lovelace, Ada Byron (figlia del poeta Lord Byron) scrisse i primi programmi per la macchina analitica di Charles Babbage. Anche nei robot troviamo la stessa curvatura spaziotemporale: se è vero che il neologismo Robot è comparso solo nel 1920 nell’esilarante commedia teatrale filocomunista Rur di Čapek, il termine androide risalirebbe al Milleduecento. Non è un refuso.

Definirlo ci aiuta. Quando andiamo a cercare come i dizionari presentano questa parola, accade sovente di incontrare la definizione «macchina automatica» di solito con la specifica dell’aspetto antropomorfo (che vuol dire simile all’uomo). Sarà per questo che tra i sinonimi di robot troviamo automa, ma la cosa strabiliante è che, se robot nasce nel 1920, automa nasce da una parola greca autómatos «che si muove da sé». E fin dall’antichità i testi sono pieni di automi. Prendiamo Efesto, dio del fuoco e dell’ingegneria, reso zoppo da una lite finita male con il padre Zeus che aveva problemi a controllare la rabbia e scaraventò il figlio giù dall’Olimpo. Ma anche zoppo, e poco fortunato in amore, Efesto guadagna gloria eterna nella sua fucina nel cuore dell’ Etna, sfornando armi bellissime e invincibili grazie all’aiuto dei suoi «automi», aiutanti meccanici incaricati dei lavori più ripetitivi e pesanti.

Spostiamoci (ma poco). In quello che potremmo definire per brevità e in modo molto superficiale «linguaggio tecnologico» che ci aiuta a parlare dei progressi scientifici, della grande rete e così via, accanto a termini come robot si è imposto un prefissoide «cyber-» che piazziamo in contesti legati a internet ma non solo. Se n’è occupata qualche anno fa l’Accademia della Crusca con la linguista Valeria Leoncini. «Cyber – scrive - è ricavato dal sostantivo inglese cybernetics, cibernetica, parola derivata dal greco dove κυβερνήτης (kybernetes) aveva il significato letterale di ‘timoniere, pilota di una nave’ e per estensione ‘colui che guida e governa una città o uno Stato’. Fu il matematico e ingegnere britannico James Watt, alla fine del XVIII secolo, a utilizzare per la prima volta la parola cybernetic in ambito prettamente tecnico per descrivere il funzionamento di un’apparecchiatura in grado di controllare la velocità del motore a vapore. Ma la cibernetica divenne un ambito di studio formalizzato soltanto nel XX secolo». Valeria Leoncini sottolinea: «Dal valore originario, il confisso ha sviluppato quello che lo riferisce più latamente alla realtà virtuale e all’uso della rete telematica. Poiché questo slittamento semantico sembra irreversibile oltre che diffusissimo, non è più designabile come improprio. I traduttori automatici di internet traducono decisamente cyber con ‘informatica’ ».

Verso il futuro. La fantascienza, da quando questo genere letterario ci accompagna, ci ha sempre aiutato a prendere confidenza col futuro, per quanto terribile possiamo immaginarlo (tanto poi ci pensa la realtà a peggiorare il quadro). Ma è impossibile parlare di robot senza citare Isaac Asimov e la sua raccolta di racconti «Io, Robot». Asimov era intimamente ottimista, con una fiducia assoluta nell’uomo e nella sua capacità di governare il progresso. Altrimenti non avrebbe scritto le tre leggi della robotica, queste:
1) Un robot non può recar danno a un essere umano né può permettere che, a causa del suo mancato intervento, un essere umano riceva danno.
2) Un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani, purché tali ordini non vadano in contrasto alla Prima Legge.
3) Un robot deve proteggere la propria esistenza, purché la salvaguardia di essa non contrasti con la Prima o con la Seconda Legge.»

Volendo e avendo tempo. Potremmo continuare a citare decine di computer e robot capaci di animare romanzi e film immaginando le più diverse personalità tecnologiche, da Hal 9000 in 2001: Odissea nello spazio, che Giorgia Furlan, in un articolo per il settimanale Left, definì molti anni fa «una sorta di enorme e saccente Siri ante-litteram che fa da super computer di bordo sulla nave Discovery 1 e che, ovviamente, pur di non essere disinserito farebbe fuori l’intero equipaggio della nave spaziale. Rachel di Blade Runner, l’adorabile C3PO di Star Wars o lo spietato agente Smith di The Matrix».

Tutta questione di neuroni. Insomma, alla fine dobbiamo tornare a Massimo Sideri e alla sua capacità di sintesi: «Forse è questo l’aspetto più strabiliante che sta caratterizzando la modernità: un’accelerazione della tecnica rispetto alle idee. È questo che ci spiazza, che ci lascia senza il tempo neuronale, genetico e psicologico di digerire il cambiamento». Quindi dobbiamo avere più paura dell’intelligenza artificiale o della stupidità naturale? Il dibattito è aperto, nel frattempo, prima che qualche robot invidioso ve lo impedisca, io fossi in voi mi iscriverei alla newsletter di Massimo Sideri. Sicuramente è una scelta intelligente.