Il medico israeliano: “Sedativi agli ostaggi per farli sorridere, l’ultimo oltraggio ai miei pazienti”
TEL AVIV. Si è parlato di minacce e di terrorismo psicologico per spiegare i sorrisi e i saluti che la maggior parte degli ostaggi israeliani ha rivolto ai propri carcerieri nel momento del passaggio dai mezzi dei terroristi a quelli della Croce Rossa. Ora risulta che quei sorrisi e quei saluti siano stati indotti nei prigionieri anche con sedativi e farmaci usati per curare disturbi d’ansia, psicosi e disturbi ossessivi-compulsivi, somministrati da Hamas «per farli sembrare felici» nonostante gli abusi fisici e le privazioni subite a Gaza. L’ha riferito ieri un funzionario del Ministero della Salute ai membri della Knesset.
«È l’ennesimo oltraggio agli ostaggi», commenta Sharon Kleitman che per le cinque comunità di Nir Oz, Nirim, Magen, Kisufim e Ein HaShosha è quel che si dice il medico di campagna. O forse sarebbe meglio dire “era”, perché come l’avvenire dei kibbutz invasi il 7 ottobre, anche il futuro del loro dottore, oggi è incerto. «In quel Sabato Nero i miei pazienti hanno sofferto le pene dell’inferno. Ammazzati, massacrati, sgozzati. Cinquanta di loro sono stati assassinati. E circa settanta rapiti». Tra i suoi assistiti, Yaffa Adar (85 anni) e Ditza Heiman (84) sono state rilasciate rispettivamente dopo 49 e 53 giorni in cattività a Gaza. Di Arye “Zalman” Zalmanovich (86) è stata confermata la morte durante la prigionia, come anticipato da Hamas in un video del 17 novembre. Chaim Perry, un 79enne «con una grave malattia cardiaca e un problema alle arterie che richiede cure quotidiane» è ancora in ostaggio di Hamas nella Striscia. E così via.
«Ora che alcune delle donne più anziane sono state rilasciate, resta l’apprensione per gli uomini, soprattutto dopo la conferma della morte di Zalman. Alcuni sono molto malati e ciascuno di loro ha le sue sfide di salute», dice il medico di famiglia a La Stampa. I suoi pazienti hanno tra 0 e 100 anni. Una signora, piuttosto avanti con gli anni, gli ha confidato, tragicamente, di trovare consolazione nel pensiero che presto morirà e non dovrà sopportare a lungo le lacerazioni dell’anima. «Che ne sarà dei bambini, che hanno tutta la vita davanti e dovranno convivere per sempre con le cicatrici? Non si sa per chi essere maggiormente preoccupati», riflette il medico mentre il pensiero vola ai suoi pazienti più giovani, i fratelli Bibas con i capelli rossi. Si direbbe che in Israele, fino all’ufficialità che solo l’esercito può garantire, tutti rifiutino l’idea che il neonato Kfir e il fratellino Ariel (4 anni), rapiti con il padre e la madre da Nir Oz, siano morti davvero, come dichiarato - ma non dimostrato - da Hamas. «Nessuno sa cosa sia successo loro. Temo qualcosa di grave. Ma spero che siano ancora vivi».
Il 7 ottobre il dottor Kleitman era in India per un ritiro tra yoga e meditazione. Ma la sua pace interiore ha subito uno choc nel momento in cui la app del Pikud HaOref, la protezione civile dove serve come riservista, ha iniziato a segnalare gli allarmi per i razzi, molti più di quanto fossero soliti arrivare, nei kibbutz del Sud di Israele sotto la sua giurisdizione di medico. I primi contatti, via Whatsapp, sono stati con il personale degli ambulatori ma era difficile farsi un’idea chiara della situazione. «Una delle mie infermiere - racconta - ha avuto un’intuizione, ha preso tutta la famiglia, è salita in auto e ha abbandonato Nirim, prima ancora che le strade fossero assalite dai terroristi». Un’altra, Nira Sharabi di Beeri, «si è salvata con la figlia Yuval per miracolo, ma hanno preso il marito e il fidanzato delle due». Il ragazzo, Ofir Engel, è stato rilasciato mercoledì dopo 54 giorni in cattività e ha potuto riabbracciare la fidanzata e i genitori. Yossi Sharabi invece è ancora prigioniero.
Quando anche una terza infermiera, questa volta da Nir Oz, ha iniziato a mandargli messaggi dal “mamad”, la stanza rifugio, dove si era chiusa con i figli di 3 e 7 anni, Kleitman ha capito che non si trattava di casi isolati ma che qualcosa di esteso e pianificato stava succedendo. Il marito della donna, Tamir Adar, era uscito per difendere il kibbutz con la squadra della sicurezza interna. «Lei mi scriveva - ricorda il dottore - che sentiva i terroristi sparare e urlare. E che non sapeva cosa fare. Io ero all’estero, lontano, mi sentivo così inutile. A un certo punto le ho detto di fare l’unica cosa che mi è venuta in mente: pregare. E anche io ho iniziato a pregare per loro». Quel giorno l’infermiera e i due bambini si sono salvati ma il marito, che poi è il nipote di Yaffa Adar, è stato preso ed è ancora in ostaggio. Di quel giorno, Kleitman ricorda il senso di grande incertezza. Nel giro di 24 ore ha preso un volo ed è tornato in Israele per mettersi a disposizione del Pikud HaOref, che l’ha assegnato al coordinamento dei servizi medici per le comunità degli sfollati, anche quelle dei suoi assistiti, nel Negev, tra Eilat e il Mar Morto.