Brexit, l’allarme degli agricoltori britannici: “Vogliamo un reddito universale garantito”
LONDRA - Le conseguenze dell’uscita del Regno Unito dall’Ue sono così pesanti per gli agricoltori britannici che ora alcuni di loro hanno ufficialmente chiesto “un reddito universale garantito”. Altrimenti, “molte aziende non sopravviveranno, perché i programmi di sostegno post-Brexit le hanno impoverite”.
È l’incredibile e triste paradosso per contadini e allevatori oltremanica, in queste ore diventato virale sui social media, visto che i soldi delle politiche comuni agricole della Ue non ci sono più. E il loro rimpiazzo sinora non sta funzionando, con molti rappresentanti del settore primario che non riescono ad accedere ai fondi.
Non a caso, due settimane fa a Westminster sono sfilati decine di trattori per una protesta davanti al Parlamento britannico: “Così ci farete morire di fame!”, si leggeva sui loro cartelli. Scene viste anche in Europa di recente. Se non fosse che agricoltori e allevatori britannici da oramai oltre tre anni non hanno nulla a che fare con le politiche di sussidi della Ue, dopo il referendum del 2016 che ha sancito la Brexit e l’uscita definitiva del Regno Unito dal mercato unico europeo a fine 2020.
Ora, almeno un centinaio di contadini britannici ha chiesto ufficialmente un reddito universale garantito e ha formato una associazione, la BI4Farmers (Basic Income for Farmers), proprio con queste motivazioni: “Il settore era rimasto a galla in precedenza grazie ai sussidi europei”, dice al Guardian la coordinatrice del gruppo, Jo Poulton, “i contadini britannici lavorano moltissime ore e sono sottopagati. Ora la Brexit è una opportunità ideale per cambiare il sistema e fornire un reddito universale di base, non solo per garantire loro una vita dignitosa ma anche il ricambio generazionale”.
Secondo l’associazione di settore Riverford, metà degli agricoltori britannici sondati in una inchiesta sostiene di “essere a rischio bancarotta” nello scenario post Brexit attuale, a causa dei costi crescenti, dell’inflazione degli ultimi anni e dell’incertezza dei nuovi sussidi di Londra. Questi ultimi, infatti, sinora non si sono dimostrati all’altezza. Il governo britannico aveva promesso di stanziare circa 2,4 miliardi di sterline all’anno per l’agricoltura, ma a oggi centinaia di milioni sono rimasti inutilizzati.
Se prima infatti con le politiche comuni europee agli imprenditori agricoli veniva destinata una quota per ogni ettaro di terreno, il nuovo sistema britannico è più complesso, perché richiede ai contadini e allevatori locali anche altri standard ecologici, per “proteggere la natura, migliorare la fertilità dei terreni e rendere le aziende più virtuose”. Insomma, un sistema farraginoso e a volte cervellotico, con un risultato sinora innegabile e sotto gli occhi di tutti: in una buona parte dei casi, gli agricoltori britannici ricevono molti meno sussidi di quando era il Regno Unito era in Europa. E ora le loro aziende rischiano di collassare.
Ma le cattive notizie per il settore non terminano qui. Il 30 aprile, infatti, qui entrano ufficialmente in vigore i nuovi controlli alla frontiera post Brexit su carni, salumi, formaggi e altri alimenti, che il governo britannico sinora ha rinviato per ben cinque volte, ammettendo che ciò avrebbe potuto avere un impatto inflazionistico. Ora però si è arrivati al dunque.
Così il ministro delle Politiche agricole e ambientali di Londra, a poche settimane dalla loro introduzione, ha pubblicato i nuovi costi doganali che dovranno sobbarcarsi le aziende e, conseguentemente, anche i singoli cittadini. In pratica, anche se si importeranno piccole quantità di carni, salumi, pesce, yogurt o formaggi, si rischiano imposte fino a 145 sterline complessive (circa 160 euro), e di 29 sterline per ogni singolo prodotto. Questo, sostiene il governo Sunak, “per finanziare le nostre frontiere ultra-tecnologiche, proteggere la biosicurezza e velocizzare i processi di controllo di prodotti animali e vegetali”.
Ma chi paga queste ulteriori sovrattasse dovute alla Brexit? “Qualcuno dovrà farlo, che sia l’esportatore, l’importatore o il consumatore”, dichiara alla Bbc Phil Pluck, leader della associazione di settore "Cold Chain Federation”, “ma alla fine è molto probabile che il ricasco vero sarà sui prezzi della vendita al dettaglio” e dunque sulle famiglie britanniche. Solo qualche giorno fa, l’inflazione dei costi degli alimentari nei supermercati e nei negozi del Regno Unito era scesa al 2% per la prima volta in due anni, dopo la guerra scatenata in Ucraina dalla Russia di Vladimir Putin. Ora, si rischia di tornare indietro.
Questi costi aggiuntivi doganali sono dovuti all’addio del Regno Unito al mercato unico europeo, che garantiva invece la libera circolazione delle merci, oltre che delle persone. Il nuovo accordo di libero scambio tra Uk e Ue firmato a fine 2019 rimpiazza solo in parte il sistema precedente e, pur escludendo dazi e tariffe sulle merci, ammette tasse e imposte doganali su prodotti che arrivano dalla Ue (e viceversa) che molto spesso impattano sul consumatore, il quale deve pagare un supplemento alla consegna.
Il Labour di Sir Keir Starmer, strafavorito alle elezioni generali di quest’anno, ha promesso di allineare il più possibile le norme e gli standard di qualità e sanitari britannici a quelli europei per limitare al massimo le “frizioni” alla frontiera. Il governo conservatore guidato da Rishi Sunak, invece, non è d’accordo perché così verrebbe meno il senso ultimo della Brexit: ossia essere liberi di divergere dall’Europa quanto si vuole, ora che si è fuori. Ma a che prezzo?