Sfruttare tutto il presente possibile senza riuscire a costruire il futuro

La società istantanea. O, forse, per meglio dire la società delle istantanee, intesa come successione a ciclo continuo e senza soluzione di continuità di momenti e frammenti (dove le “vecchie” fotografie istantanee appaiono inesorabilmente quali testimonianze di un “archeologico” passato analogico).

Anche se su temi come questi – molto giustamente e opportunamente – il dibattito non si ferma mai, è difficile negare che da qualche tempo a questa parte ci ritroviamo tutti quanti immersi in una nuova mutazione collettiva di natura antropologica. O, per dirla con Karl Polanyi, in un’ennesima “Grande trasformazione”, nella cui genesi hanno giocato un ruolo decisivo – come per tanti aspetti della contemporaneità – i media digitali. La qual cosa, naturalmente, non costituisce una novità in assoluto, poiché, nella storia, l’avvento di qualche tecnologia inedita ha quasi sempre prodotto una modificazione dei costumi e, nei casi più significativi, delle stesse categorie fondamentali dello spazio-tempo.

Il sociologo tedesco Hartmut Rosa ha indagato in profondità il significato della definizione dell’Occidente quale società dell’accelerazione: quella tecnica (nei trasporti e nelle comunicazioni), quella del cambiamento sociale e quella del ritmo della vita. Sulla base di questa idea, le analisi più generali della società contemporanea possono essere viste di fatto come altrettante varianti della teoria dell’accelerazione, dal momento che individuano un nesso causale diretto fra l’accelerazione tecnologica e la frenesia della vita quotidiana individuale e collettiva. Precisamente quanto avviene oggi nella nostra società istantanea imperniata sull’istantaneità della comunicazione a cui nessuno (a partire dai politici), resiste o si sottrae, e a conferma di come essa sia andata oltre l’etichetta di “postmoderna” – e, che sulla scorta di alcuni studiosi che hanno lavorato su questo stadio ulteriore della sua evoluzione (o involuzione…), possiamo qualificare come “post-postmoderna”. Il geografo David Harvey ha identificato proprio nella «compressione spaziotemporale» il nocciolo duro della postmodernità, che ha letto nei termini di una declinazione differente della modernità anziché di un suo superamento. Una “compressione” perché la storia del capitalismo è stata contraddistinta da un’accelerazione progressiva – diventata attualmente esponenziale – nella cadenza e nelle scansioni dell’esistenza, mentre lo spazio è parso restringersi e ridursi sino a dare vita a un “villaggio globale”.

Nell’attuale condizione post-postmoderna a dominare, giustappunto, è l’istantaneità, in ogni suo ambito, e innanzitutto nella dimensione temporale. Istante, dunque, come sinonimo in primo luogo di iperaccelerazione delle nostre esperienze, che tutti, infatti – e specialmente i più giovani – ci affanniamo a documentare senza sosta, e senza viverle pienamente per quanto siamo presi dalla smania di fissarle con la finalità di mostrarle agli altri, all’insegna di quella che potremmo considerare come la manifestazione di una “volontà di potenza” soggettivistica. La società istantanea è accompagnata da un ulteriore mutamento della concezione temporale, che si converte in quello che il filosofo belga Pascal Chabot ha chiamato l’«ipertempo» (Avere tempo. Saggio di cronosofia, Treccani). L’ipertempo impone l’accelerazione dei ritmi e la valutazione continua dei gradi di urgenza delle azioni: dentro questo schema la corsa non risulta mai abbastanza veloce, con l’esito che mai come in questa epoca “avere del tempo (a disposizione)” si rivela difficoltoso. Si tratta del «paradosso della pressione del tempo», ovvero il divario tra la quantità di tempo libero o discrezionale di cui effettivamente disponiamo e il nostro sentirci perennemente trafelati e sotto stress. L’ipertempo impone l’immediatezza, che prevede la riduzione del futuro, l’accorciamento dei processi, l’anticipazione dei tempi di consegna e la stessa maggiore “deperibilità” delle idee nella rapidità dei flussi comunicativi. Un’immediatezza che possiede il vantaggio della pronta reazione, ma proprio per questo risulta altresì contraddistinta da un grado minore di consapevolezza. In tale contesto trionfa appunto il presentismo, ed esiste solo lo stato presente, vale a dire una sequenza di istanti ed esperienze che si consumano nell’immediato e necessitano, pertanto, subito dopo, di altre ancora, da catturare con l’occhio-telecamera dello smartphone. E da rilasciare poi in mezzo agli sciami digitali che percorrono il web per la durata instant di un’immagine da scorrere su Instagram. «Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma», notò per primo Antoine-Laurent Lavoisier, destinato a diventare una vittima della prima accelerazione vorticosa della contemporaneità (la Rivoluzione francese del 1789). Mentre oggi nulla si sedimenta e resta, nulla si stratifica e consolida, e tutto si distrugge nel tempo di un istante.