La Nazionale ha poca qualità, Spalletti ha poco tempo: così è cambiato il suo progetto
Spalletti ha saputo rinunciare alla sua idea di «calcio relazionale» e ha accantonato, per adesso, quel progetto ambizioso e moderno da apparire visionario. Il cvoraggio di un grande allenatore
Non era scontato che Luciano Spalletti, contro la Croazia, cambiasse anima tattica alla Nazionale. Almeno, non così radicalmente. Invece ha saputo rinunciare alla sua idea di «calcio relazionale», e ha accantonato, per adesso, quel progetto tanto ambizioso e moderno da apparire visionario, pieno di schemi liquidi e calciatori interscambiabili nei ruoli. È un tipo di decisione costosa, anche sul piano mediatico, dopo mesi di annunci e titoli sui giornali, che può prendere soltanto un grande allenatore. Certo: forse è stato costretto dalle pallonate degli spagnoli. O forse è solo che ci vuole tempo per capire dove si è arrivati.
Il cittì ha un’alta considerazione di sé, e la merita. Ha sbagliato pochissimo in carriera. Arrivava quarto all’Inter quando l’Inter era da quinta/sesta posizione. È stato vicino allo scudetto con una Roma non ancora all’altezza. E poi lo ha riportato a Napoli dopo 33 anni, senza Maradona e facendo giocare la squadra con le millimetriche geometrie di una play station. La determinazione a voler lasciare un segno preciso anche in azzurro è quindi legittima e comprensibile. Il problema (noto) è però che per insegnare calcio occorre un addestramento se non quotidiano, almeno costante, sono necessarie continue lezioni alla lavagna e poi colloqui personali ravvicinati, e minuziose indagini nella psiche di ciascun calciatore. Invece lui è qui, sulla panchina azzurra, da poco più di nove mesi. Poco. Troppo poco. Soprattutto se il materiale umano a disposizione non è, diciamo così, di alto profilo internazionale.
Contro i croati, l’altra sera, ci siamo perciò trovati davanti a una squadra azzurra che era dentro un piano di gioco poco cerebrale e molto classico, molto italiano, in teoria semplice da realizzare (solo in teoria: perché poi abbiamo comunque arrancato per lunghi tratti, confusi e con poca gamba): era un 5-3-2 concreto e familiare, utile — probabilmente — anche per accrescere l’autostima del gruppo, piuttosto traballante.
Fabio Capello, su Sky Sport, sostiene che siano stati i giocatori a indirizzare la scelta, «perché magari sono più abituati al modulo che va per la maggiore in Italia». È un’ipotesi condivisibile. Del resto, ogni allenatore sicuro di sé parla e si confronta con i suoi uomini più fidati, quelli che gli servono a decifrare gli umori della squadra, e le incertezze, le subdole resistenze, se non addirittura proprio le paure. Solo che quando, in conferenza stampa, una domanda che portava più o meno a questa tesi, è planata davanti al cittì, lui ha ruotato, lentamente, la testa. È quel genere di rotazione spallettiana che conosciamo. E non annuncia niente di buono. Così, tra le pieghe di una risposta troppo ruvida, s’è intuito che il cittì comincia a immaginare, o temere, spifferi malvagi nel suo spogliatoio e nei corridoi vicini, dove potrebbe aggirarsi qualche perfido «topino» parlante, come li chiamava ai tempi di Trigoria, a Roma.
È certo che il cittì, consapevole di alcuni anfratti del suo carattere, si sia subito pentito di quella reazione. Comprende che non è il momento di farsi venire sindromi da assedio, e che simili debolezze potrebbero risultare fatali. E poi ha visto, ha vissuto troppo calcio, e sa bene che non esiste quel mondo fantastico in cui un allenatore della Nazionale può lavorare in santa pace, e cambiare idea, e magari cambiarla ancora, senza che voli una foglia di curiosità.
Adesso, per dire, ci chiediamo: Zaccagni lo rimetterà in panchina, contro la Svizzera? E Jorginho: lo toglie o no? Occhi curiosi osservano gli allenamenti nascosti nel bosco. E non sono topini, mister, ma cronisti.