
Paul Ley, medico a Khan Yunis: “Mai operati tanti bambini come a Gaza. Passo le giornate ad amputare arti”
Ho lavorato negli ospedali dell’Afghanistan, in Uganda, Etiopia, Sierra Leone, Sudan, Cambogia, Jenin…ma non mi è mai capitato di operare così tanti bambini feriti come ora nella Striscia di Gaza”. L’intervista al telefono con il dottor Paul Ley dura un’ora, e per un’ora in sottofondo si sentono le grida di un ragazzino. “Non abbiamo antidolorifici in quantità sufficiente per tutti, facciamo interventi chirurgici con livelli di anestesia minima. E siamo costretti a scegliere chi salvare e chi lasciare andare”.
Chirurgo ortopedico del Comitato internazionale della Croce Rossa, Ley ha 60 anni, passaporto francese ma infanzia e adolescenza trascorse in un paese del Varesotto. Anni fa lavorava con Emergency di Gino Strada. E’ arrivato all’European Hospital di Khan Yunis il 27 ottobre, varcando il valico di Rafah. Con lui un team di sei persone. “Vuol sapere cosa faccio? Passo le giornate ad amputare arti, che poi metto in una scatola di cartone e riconsegno alla famiglia. E’ la procedura che rispetta i precetti religiosi sulla integrità corporea”.

Quanti pazienti state assistendo?
“Il numero esatto non lo so, ne hanno appena trasferiti 500 da Gaza City, molti dei quali erano ricoverati all’al-Shifa e all’Indonesiano. Da nove giorni nessuno si sta prendendo cura di loro, indossano gli stessi abiti sporchi su cui proliferano i vermi”.
Che tipo di lesioni hanno?
“Non hanno segni di armi da fuoco. Sono tutti sopravvissuti a bombardamenti, raid aerei e ai crolli dei palazzi, hanno lacerazioni nel corpo, traumi da schiacciamento e ustioni di vario grado”.
Quanti i bambini ricoverati?
“Per darle un’idea: abbiamo un’unità speciale per gli ustionati, e il 40 per cento dei pazienti ha meno di 15 anni. Il 13 per cento meno di 5 anni. Le infezioni si diffondono rapidamente, quasi tutti hanno la tosse”.

Quanti siete ad operare?
“Siamo in 7 o 8 chirurghi, ma se anche fossimo dieci volte di più non basterebbe. Oltretutto i chirurghi palestinesi non ne possono più di amputare braccia e gambe ai loro concittadini, sono talmente provati dalle devastazioni nella Striscia che ci chiedono a noi della Croce Rossa di operare al posto loro. Quindi faccio turni da 18 ore al giorno. Da quando sono arrivato non ho mai lasciato l’ospedale”.
Cosa non dimenticherà mai della disperazione che sta vivendo?
“Una donna di 35 anni arrivata qualche giorno fa dal Nord, con le gambe insanguinate e le ferite infette. Le ho spiegato che le avrei dovuto amputare gli arti inferiori e che non avrebbe più camminato, non avevano scelta. Mi ha risposto che potevo tagliare qualsiasi parte del suo corpo perché non aveva più interesse a vivere, dopo che un missile aveva ucciso i suoi due figli e suo marito”.

Vi trovate nella situazione di dover selezionare chi curare?
“Purtroppo sì, viviamo questo dilemma ogni giorno. Facciamo il triage insieme con gli altri del team, poi decidiamo quale paziente portare sotto i ferri sulla base delle possibilità di sopravvivenza ed evitiamo di fare tentativi disperati su chi riteniamo possa morire in due o tre giorni. A parole è semplice farlo, ma quando poi devi prendere la decisione finale sulla vita e la morte di qualcuno stai male. In questo momento c’è un dodicenne con il 90 per cento del corpo ustionato da una bomba e che abbiamo scelto di non operare, lo teniamo sotto sedativi. Che però non sono neanche sufficienti per eliminargli il dolore”.
Che cosa usate come anelgesico?
“Molta chetamina. E’ una sostanza che si usa spesso in situazioni come questa, di guerra, ma non è l’ideale. Di solito per togliere i vestiti a chi ha più del 40 per cento del corpo bruciato, usiamo potenti sedativi, adesso lo facciamo senza. E la sofferenza che i pazienti provano è indescrivibile”.
Com’è la situazione all’interno dell’European Hospital?
“Siamo probabilmente l’ultima linea sanitaria funzionante nel Sud della Striscia, però siamo al collasso. Il gasolio per i generatori elettrici sta finendo, quindi solo i reparti essenziali e la terapia intensiva hanno l’elettricità per tutto l’arco della giornata”.

Sono accampati lì anche gli sfollati?
“Sì, ce ne sono alcune migliaia, forse più di 5 mila. Alcuni dormono dentro gli ascensori, altri affollano i corridoi. Persino un dottore dell’al-Shifa che è venuto a darci una mano deve dormire fuori, sotto un telo di plastica, perché non c’è più posto”.
Siete stati bombardati finora?
“L’ospedale finora non è stato colpito da missili e non sono state fatte incursioni anti-Hamas, come avvenuto la scorsa settimana all’al-Shifa. Attorno al perimetro della struttura esiste una fascia di 150 metri di zona franca che l’esercito israliano sta rispettando. Ma i combattimenti sono vicinissimi. Io dormo per terra, in una stanza riservata al personale, lontano dalle finestre. Così riduco il rischio di essere investito dalle schegge delle bombe”.