Final Fantasy VII Rebirth cerca di far tornare il mito del videogioco originale: recensione

Final Fantasy VII: Rebirth riscrive, ancora una volta, l'epica videoludica. No, non è la classica frase ad effetto con cui è spesso prassi iniziare una recensione, ma è esattamente ciò che mette in scena il secondo capitolo di questa ambiziosa trilogia dedicata al mito di Final Fantasy VII. Rebirth prende ciò che era già eccezionale dell’esperienza originale e lo rivitalizza, lo rimpolpa, lo arricchisce, dando vita a quella che – non a caso – viene definita già dal titolo come rinascita. Il nuovo gioco di Square Enix – in uscita il 29 febbraio, a 4 anni da Final Fantasy VII: Remake  (qui la recensione) – non si limita ad una mera operazione di svecchiamento dell’opera del 1997: infatti, l'intento di questo gioco non è solo di ammodernare a livello grafico, ma fare ciò che a metà degli anni Novanta non era possibile mettere in scena, a causa di tecnologie ancora poco performanti rispetto a quelle che gli sviluppatori hanno a disposizione al giorno d’oggi. 

Rebirth, così come il suo predecessore Remake, nascono con l’obiettivo primario di restituire al giocatore quella che era l’idea originale del progetto, ora che è possibile farlo con mezzi migliori – nulla di più; rimette insieme i vari pezzi disseminati – come nel film d’animazione Final Fantasy VII: Advent Children, diretto da Tetsuya Nomura e Takeshi Nozue nel 2005 – in un’immensa opera transmediale, che ora può prendere forma nel modo giusto. Il tessuto narrativo di Final Fantasy VII viene preservato nella sua interezza; certo, ci sono alcuni filler dettati dalla necessità di colmare quei vuoti creati nel diluire la trama di un gioco unico spezzettato in tre capitoli – i famosi espedienti per “allungare il brodo” – ma è tutto fatto nel pieno rispetto della storia originale. Che è quello che conta, alla fine. 

Final Fantasy VII: Rebirth arriva con una grande responsabilità sulle spalle, più pesante della spada Buster (o Potens, come preferite) che Cloud Strife porta con sé: dopo la parziale delusione di alcuni giocatori che non hanno apprezzato il finale di Remake (troppo creativo o, addirittura, insensato per gli aficionados del titolo del 1997), il (duro) compito di Rebirth sta proprio nel ridare fiducia a quegli appassionati, farli tornare ad innamorarsi di Final Fantasy VII, proprio come la prima volta. E, ad onor del vero – chi scrive ha adorato ogni singola fibra di quell’opera mastodontica di fine anni Novanta – questo secondo atto è riuscito in un’impresa che sembrava impossibile: far ritornare i giocatori ad amare Final Fantasy VII con la stessa intensità (o forse ancora di più, chissà) come in quel lontano 1997.

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La creazione del mito

Ma prima di parlare di Rebirth in dettaglio, è necessario fare un passo indietro, provare a comprendere l’importanza che lega a doppio filo Final Fantasy alla storia del videogioco – e viceversa. La saga è, probabilmente, ciò che più si avvicina al concetto di letteratura epica nel mondo dei videogiochi. Proprio come la forma narrativa che ha dato il via a ciò che oggi definiamo il primo processo di storytelling della storia dell’umanità, anche la serie videoludica a firma Square Enix ha forgiato la sua essenza facendo leva su gesta eroiche, siano esse opere di fantasia o ispirate a eventi reali, e la cui tradizione – anche orale, per certi versi, mutuata grazie al passaparola di generazione in generazione – si è consolidata nei suoi quasi 40 anni di storia. Lo stesso nome del franchise, Final Fantasy, ha una storia leggendaria: si narra, infatti, che nel 1986, Hironobu Sakaguchi – creatore della serie – avesse presentato a Shigeru Miyamoto di Nintendo l’idea di un nuovo videogioco, il cui nome sarebbe stato proprio "Final Fantasy". Le ragioni, forse un po’ scaramantiche, legate al titolo sono dovute al fatto che Sakaguchi, temendo che la sua azienda finisse in bancarotta vista l’ambizione dietro al progetto, questa sarebbe stata la sua “ultima fantasia”, la sua “fantasia finale”. Ma il nome, si sa, è solo un nome: il primissimo Final Fantasy, pubblicato in Giappone nel 1987, riuscì a vendere milioni di copie. E il nome, che sembrava portare fortuna, non venne più modificato. 

A distanza di 10 anni da quell’azzardo, Square decise di tentare un nuovo colpo, provando una strada differente rispetto a quella percorsa dalla saga fino a quel momento: era il 1997 e il videogioco stava diventando un prodotto molto diverso rispetto al decennio precedente, questo anche grazie alle diverse migliorie tecnologiche che avevano caratterizzato il medium a partire dagli anni Novanta. Si potevano raccontare storie più profonde, dare vita a personaggi più credibili e lavorare su tematiche fino a quel momento inesplorate, proprio a causa dei limiti tecnici sottesi al videogioco fino a quel momento. Final Fantasy VII scardinò qualsiasi regola scritta e conosciuta del videogioco fino a quel momento per provare a intraprendere un percorso tutto suo, unico, inedito. 

Final Fantasy VII: Rebirth, la recensione: lo straordinario ritorno del capolavoro Jrpg di Square Enix

Basti solo pensare all’intro del videogioco, un momento puramente cinematografico: c’è un cielo stellato, buio; d’un tratto, ecco una dissolvenza sul volto di una ragazza (che scopriremo essere una delle comprimarie del gioco, la fioraia Aerith Gainsborough), che inizia ad incamminarsi fuori da un vincolo, stringendo un cestino con dei fiori preceduta da una ripresa “a carrello all’indietro”. Si ferma sul ciglio del marciapiede, il carrello continua a procedere il suo percorso a ritroso sempre più velocemente e si alza in volo, sovrastando la città di Midgar, caratterizzata da un’architettura industriale, modernista. Appare il titolo “Final Fantasy VII”, stacco; le rotaie di un treno in corsa, stacco sulla città, ma la macchina da presa corre giù verso il basso, con una ripresa a “volo d’uccello” infilandosi negli stretti cunicoli di Midgar, stacco sulle rotaie, l’arrivo di un treno. Da quel treno scendono degli uomini, che colpiscono un gruppo di guardie di pattuglia. E poi c’è un ragazzo di spalle, dai capelli biondi a punta: è Cloud Strife, il protagonista di Final Fantasy VII. E il resto, si sa, è storia, è leggenda, è mito. È da quel momento in poi che Final Fantasy VII ripensa il genere Jrpg, riscrivendo a modo suo, in appena 2 minuti e 15 secondi, i canoni di esperienze analoghe del tempo, diventando un modello per tutti i titoli successivi – e non solo quelli di Final Fantasy. 

A proposito di quella sequenza, ne abbiamo discusso con il producer di Final Fantasy VII: Rebirth, Yoshinori Kitase (nel 1997 game director di Final Fantasy VII) in un recente incontro a Londra: «Ti racconto quali fossero le mie intenzioni con quella sequenza [all’epoca]. Ho sempre desiderato mostrare quanto fosse grande il mondo di gioco dei primi Final Fantasy. In questo mondo ci sono diversi livelli e all’epoca con la grafica 2D – che era l’unica che potevamo usare – dovevamo fare dei cut, usare delle dissolvenze a nero, staccare di nuovo e così via. Non potevamo creare un discorso visivo unico perché mancavano le tecnologie per farlo. Solo grazie al passaggio al 3D, abbiamo potuto dare vita a rappresentazioni più realistiche. Abbiamo potuto mostrare in tempo reale la scala di quel mondo più piccolo che si estende al macro in un modo più fluido e realistico. L’originalità di quel passaggio stava proprio nell’aver creato un mondo senza soluzione di continuità, tutto unito, e dalla possibilità spostarti da un punto all'altro senza dover usare dei cut o usare delle dissolvenze a nero». 

Era l’inizio di un nuovo modo di raccontare il videogioco, di costruire la sua identità, in un continuo equilibrio tra narrazione e gameplay – senza che una componente prevalesse sull’altra.

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La rinascita del mito

I presupposti con cui ci si avvicina a Final Fantasy VII: Rebirth sono, ovviamente, conflittuali: da un lato c’è il timore che il team di sviluppo abbia snaturato alcuni momenti chiave del gioco originale, ma dall’altro c’è anche la curiosità di scoprire che volto e corpo potrebbe avere Final Fantasy VII nel 2024. Con Remake avevamo già avuto un piccolo antipasto: tornare a Midgar e ammirare tutte le sue diverse sfaccettature, (re)incontrando a poco a poco i vari personaggi che hanno costituito la struttura narrativa del titolo originale – magari concedendo loro un po’ di spazio in più rispetto al passato, con la profondità che ne deriva – ha riacceso la nostalgia e l’amore per quell’opera. Allo stesso modo, anche Rebirth rivendica quel desiderio di vedere realizzato un progetto che, quasi 30 anni prima, non aveva trovato modo di esistere per mancanza di tecnologie adeguate a plasmare l’ambizione prorompente di quel gioco. Ma c’è di più: c’è un aspetto che si ama sin da subito di questo secondo atto, ossia la potente dinamica relazionale che permette ai personaggi di entrarti dentro, amarli (o detestarli) in ogni loro più piccola sfumatura. 

Rebirth concentra le sue energie proprio nei rapporti che Cloud può (o non può) stringere con i diversi membri del party. Attraverso la metafora del viaggio, al giocatore viene concessa la possibilità di esplorare i tanti lati emotivi dei comprimari che accompagnano Cloud nel suo scontro contro il villain Sephiroth, imbastendo una narrazione straordinariamente potente. Questo aspetto, tuttavia, trova anche una praticità in termini di gameplay: in Rebirth, infatti, è possibile sviluppare un albero delle abilità sinergico, che permette a due personaggi di effettuare attacchi combinati con effetti devastanti sul nemico. La scelta di optare per questo sistema di combattimento – che è per certi versi opzionale, ma, se non utilizzato nel modo giusto, rischia di far perdere a Rebirth la sua natura profonda – è decisiva per riportare Final Fantasy sui suoi binari, quelli che spesso vengono reclamati a gran voce dai giocatori di vecchia data – poco interessati alla svolta decisamente action che caratterizza gli ultimissimi capitoli della serie. 

Final Fantasy VII: Rebirth, la recensione: torna il capolavoro di Square Enix che cambiò per sempre il genere Jrpg

A tal proposito, l’altro grande pregio di Rebirth è di essere ritornato alle sue radici: quelle di videogioco Jrpg allo stato puro. Nonostante permanga un’attenzione all’azione in tempo reale – questo per non destabilizzare eccessivamente i videogiocatori contemporanei, lontani dalle logiche dei videogiochi a turni old school – questo secondo capitolo punta tutto sul lavorare sui diversi ruoli incarnati dai singoli membri del party e dallo sviluppo delle loro abilità. Questo perché l’intero combat system di Final Fantasy VII: Rebirth si concentra su un sistema, per certi versi, più tattico rispetto al capitolo precedente, dove imparare a conoscere i punti deboli e i punti di forza dei singoli nemici – così come “addestrare” i propri alleati nelle loro diverse skill – è la chiave per avere vittoria (più) facile sul campo. Rispetto a Remake, Rebirth è meno “permissivo”: non basta limitarsi a colpire i nemici a suon di spadate o pugni, ma richiede un maggior controllo e saper padroneggiare il sistema di combattimento in tutti i suoi aspetti, anche utilizzando abilità speciali e magie. La chiave di tutto sta nella pianificazione: arrivare preparati ad ogni scontro – dall’aver sviluppato in modo corretto i singoli alberi delle abilità, così come equipaggiarsi con strumenti adeguati ad affrontare la battaglia – porta ad una vittoria quasi automatica, sotto certi aspetti. 

Il trucco sta anche nel dedicarsi alle diverse attività secondarie che è possibile trovare nel mondo di gioco, e di cui il mondo di Gaia straripa. Farlo permette non solo di grindare e permettere al gruppo di personaggi di salire di livello con maggiore velocità – e, di conseguenza, sbloccare nuove opportunità e abilità di combattimento – ma anche per scoprire aspetti inediti dello scenario digitale che ci circonda. La sua struttura open world ricalca molto chiaramente gli intenti di questo Rebirth: al giocatore viene data grandissima libertà di movimento e di esplorazione – al contrario di Remake, che prediligeva una struttura molto lineare e più vicina all’esperienza originale – lasciando che scelga la modalità di approccio più congeniale. Ah, e ovviamente “spazi più grandi” richiedono anche mezzi di trasporto pratici: tra questi, ci sono gli adorabili Chocobo – pennuti capaci di raggiungere velocità impressionanti – con cui è anche possibile prendere parte a vere e proprie competizioni. E se siete amanti dei kart, c’è anche un “giochino” a metà tra Rocket League e Mario Kart, dove i giocatori possono correre a bordo di bolidi personalizzabili su oltre una ventina di circuiti. 

Final Fantasy VII: Rebirth, la recensione: torna il capolavoro di Square Enix che cambiò per sempre il genere Jrpg

In altre parole, le attività collaterali sono anche un ottimo modo per tirare il fiato tra un combattimento e l’altro, tra una sequenza densa di avvenimenti e l’altra; in particolare, i giocatori possono sfidare altri NPC in un gioco di carte chiamato Regina Cremisi – un’esperienza a metà tra gli scacchi e Gwent di The Witcher 3 – che, da solo, è un videogioco a sé.

La consacrazione del mito

Per ovvie ragioni di spoiler, non vi racconteremo se il destino di quel personaggio cambierà oppure no in questo Rebirth. Non sarebbe giusto nei confronti di chi non ha vissuto Final Fantasy VII all’epoca – probabilmente una delle sequenze più segnanti della vita di un giocatore adolescente degli anni Novanta – e, in fin dei conti, non sarebbe neanche decisivo ai fini dell’analisi conclusiva del gioco.

Rebirth, così come (o forse ancor più di) Remake, funge da consacrazione del mito di Final Fantasy VII, il sogno dei suoi sviluppatori di vedere realizzato quel progetto così come doveva essere quasi 30 anni fa; un’epopea straordinaria, ricca di momenti emozionanti e con personaggi incredibili, che si combinano tra loro in modo efficace – ancor più rispetto al 1997. Una rinascita, ma nel modo giusto: un ritorno alla vita straordinariamente moderno, ma al tempo stesso rispettoso dell’anima pura di Final Fantasy e di quell’episodio 7 che ha riscritto la storia del videogioco dalla seconda metà degli anni Novanta in avanti.

Ci sono voluti 20 anni prima che Final Fantasy ritornasse alla sua forma migliore, che tornasse a riscoprire il suo DNA e che facesse tornare a far battere il cuore proprio come quella prima volta che abbiamo inserito il primo disco (di 3) nella vecchia PlayStation. Final Fantasy VII: Rebirth compie un'impresa inimmaginabile, lasciando che vecchie e nuove generazioni di giocatori possano (ri)vivere quell’esperienza e portare con sé il ricordo memorabile di uno dei più grandi capolavori della storia del videogioco contemporaneo. Final Fantasy VII: Rebirth sarà disponibile dal 29 febbraio in esclusiva su PlayStation 5.

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29 febbraio 2024 ( modifica il 29 febbraio 2024 | 16:00)