Tre giorni di blackout, così Israele ha coperto le nuove stragi di civili a Gaza

RAFAH — Quello che ho imparato da questa guerra è che, ogni volta che saltano le comunicazioni, Israele sta commettendo qualcosa di terribile. Dopo gli ultimi bombardamenti sulle infrastrutture, c’è stato il quinto e più lungo blackout delle linee telefoniche e internet dal 7 ottobre. Quando domenica i primi segnali sono ripresi lentamente, abbiamo scoperto che nei tre giorni in cui non siamo riusciti a parlare e a connetterci con il mondo le forze israeliane avevano ucciso decine di civili e devastato la Striscia, dal Nord a Khan Yunis.

Case bruciate, scuole bombardate, ospedali occupati, civili uccisi. Tra le scene più atroci che mi sono state riportate dai colleghi al Nord c’è quanto avvenuto nel cortile dell’ospedale Kamal Adwan, dove le tende dei feriti e rifugiati palestinesi sono state travolte dal passaggio dei carri armati che hanno distrutto i ripari e ucciso pazienti ancora vivi. A Khan Yunis è stato colpito il reparto di maternità dell’ospedale Nasser dove almeno un bambino è stato ucciso.

Nuove bombe sono state lanciate anche sull’ospedale al-Shifa di Gaza City, dove erano ancora tanti i rifugiati. I testimoni ascoltati parlano di decine di morti con la situazione più drammatica a Nord e in particolare nel campo rifugiati di Jabalia, già martoriato dai raid e ora di nuovo colpito: i morti sarebbero almeno 110, ma tante sarebbero le persone rimaste sotto le macerie che nessuno riuscirà mai a raggiungere. L’Idf continua a credere che questi siano obiettivi strategici dal punto di vista militare.

In questi tre giorni di silenzio e di tragedia sono stato straziato dal pensiero della mia famiglia. Mia sorella maggiore a Jabalia, mio fratello e i miei genitori nel centro, l’altro mio fratello in un’altra zona di Rafah. Sapevo che stavano succedendo cose orribili ma non potevo verificare se loro ne fossero stati coinvolti. Mi sono sentito cieco. Ero in apprensione anche per il mio lavoro giornalistico, non potendo sentire le fonti e non potendo comunicare con il mondo esterno.

Però sono rimasto lucido, e ho cercato di sollevare il morale degli altri, soprattutto dei bambini privati anche di quel poco sollievo che può dare un videogioco su uno smartphone. In cambio abbiamo parlato, sognato tempi migliori e riso anche per coprire il suono delle bombe.

Ieri ho avuto finalmente notizie da Jabalia: mia sorella sta bene anche se il suo destino e quello della sua famiglia è segnato. Chiusi in una scuola rifugio, sono intrappolati all’interno. Fuori, a ogni angolo, ci sono cecchini israeliani appostati e qualsiasi cosa si muova diventa un bersaglio. Mi ha raccontato che affacciandosi dalle finestre vede cadaveri di civili abbandonati in strada.

Soltanto qui a Rafah, e soltanto negli ultimi giorni, la situazione è migliorata: il cibo non si trova più nei mercati locali ma la distribuzione da parte delle organizzazioni umanitarie è aumentata. Il vero problema inizia a essere l’acqua, perché sotto ai bombardamenti israeliani è rimasto colpito anche il sistema idrico che ora rischia di collassare. Abbiamo pochissima acqua a disposizione per bere, cucinare e lavarci, le donne in età mestruale ne sono particolarmente colpite soprattutto per quanto riguarda l’igiene.

Alla luce di quello che è accaduto, e considerate anche le voci di un possibile nuovo scambio di ostaggi, il pensiero dominante è che se anche il cessate il fuoco e la fine della guerra dovessero arrivare domani, dopodomani la soluzione sarebbe lasciare la Striscia. Dovunque gli israeliani hanno distrutto case, strade, scuole, ospedali e appare sempre più chiaro che il vero disegno politico fosse spingerci al Sud e poi distruggere tutto per non metterci nelle condizioni di tornare indietro.

Se Israele non è riuscito a farci forzare i confini, quello che succederà dopo la fine della guerra è che le persone vorranno andarsene volontariamente. Così in queste ore a Rafah non si parla d’altro: dove andare dopo aver superato l’Egitto, la nostra porta verso il mondo? C’è chi sogna l’Europa, chi pensa al Canada, in tanti si stanno già muovendo per provare a trovare un visto per l’Australia, molti studiano i Paesi che permettono di entrare senza visto, uno dei più ambiti è l’Indonesia. Anche con mia moglie e le mie figlie si fanno questi discorsi, ma ci siamo detti che vogliamo pensarci soltanto quando la guerra sarà finita. Chi è nato e cresciuto a Gaza lo sa: la vera guerra inizia dopo la guerra.

(testo raccolto da Benedetta Perilli)