Cosa cambia in Italia dopo le elezioni in Francia? Le conseguenze sul governo Meloni, punto per punto
I voti ai partiti Domenica i francesi hanno votato così: il Rassemblement national (RN) — il partito di Marine Le Pen che candida il 28enne Jordan Barella a primo ministro — ha superato il 33% insieme alla parte dei Républicains (i neogollisti) che hanno seguito la scelta del leader Eric Ciotti di sostenere l’estrema destra.
Il Nouveau Front populaire (Nfp) — la coalizione di sinistra formata da La France insoumise di Jean-Luc Mélenchon, Place Publique di Raphaël Glucksmann, socialisti, comunisti ed ecologisti — ha raggiunto il 28%.
Ensemble, la coalizione del presidente Emmanuel Macron, ha avuto il 20%.
I Républicains che non si sono uniti al RN hanno preso il 6,5%.
Qual è il verdetto politico? È questo: successo strabordante dei lepenisti, che alle elezioni del 2022 avevano preso il 18,7%. Ottimo risultato del NFP, alleanza estemporanea e improvvisata tra sinistra radicale e sinistra riformista, nata in pochi giorni dopo le Europee eppure capace di sfiorare il 30%. Crollo dei macroniani, che due anni fa erano sopra il 25%.
Il risultato più importante, però, è la conferma del declino dei neogollisti, una delle destre che hanno fatto l’Europa, nata dalla e nella lotta al nazifascismo e argine ventennale al lepenismo, fino a oggi. Certamente nell’ascesa delle destre radicali in America, Italia e Francia contano gli errori delle sinistre, ma questo non spiega come mai le destre moderate non facciano più il loro mestiere, e anzi crollino. Perché Trump si è mangiato i repubblicani Usa, Le Pen i gollisti francesi e Meloni il centrodestra italiano? Sono domande che non appassionano i commentatori ma solleticheranno gli storici.
E ora che succede? Bisogna ricordare come funziona il sistema elettorale francese: vince i collegi chi al primo turno ottiene il 50% più 1 dei voti, altrimenti vanno al ballottaggio tutti i candidati che ottengono almeno il 12,5% degli iscritti ai registri elettorali. Hanno vinto al primo turno 76 candidati, di cui 38 del RN, 32 del Nfp e 2 di Ensemble. Siccome la partecipazione al voto è stata molto alta — il 67% — i candidati che hanno superato la soglia del 12,5% sono molto più numerosi del solito. In teoria, dovrebbero sfidarsi domenica prossima in 306 triangulaires, sfide elettorali a tre: nel 2022 ce ne furono solo 7. Ma solo in teoria.
La desistenza È la scelta di Nfp e (meno netta) di Ensemble di ritirare dalle triangolazioni il proprio candidato, se è arrivato terzo, in modo da rafforzare la possibilità di battere i candidati lepenisti, che partono in pole position quasi ovunque. Fino a ieri sera, in 179 collegi erano già state annunciate desistenze. La scelta di ritirarsi è possibile fino a oggi alle 18: a quel punto avremo un quadro completo. Ma ci sono problemi politici, naturalmente.
I tentennamenti dei macroniani C’è una differenza significativa: il Nouveau Front populaire ha dato indicazione di desistere sempre a favore dei macroniani, se meglio piazzati: «Non un voto e non un seggio in più alla destra», ripete Mélenchon, leader di La France insoumise, la componente più radicale dell’alleanza. Invece, tra i macroniani, esponenti importanti come l’ex premier Edouard Philippe e il ministro delle Finanze Bruno Le Maire dicono no a desistenze che favoriscano i candidati di La France insoumise.
E Macron che dice? Il presidente sconfitto non riesce a tenere insieme le sue truppe. Anche lui in campagna elettorale aveva messo sullo stesso piano l’estrema destra e l’estrema sinistra, ma ora chiama al voto comune di tutti i non lepenisti contro i lepenisti perché, avverte, «l’estrema destra sta per arrivare alle massime funzioni dello Stato». Solo che, racconta Stefano Montefiori, da un teso vertice all’Eliseo è emerso che «i membri della sua maggioranza ne hanno abbastanza di seguire le indicazioni del capo». Anche perché lui può comunque restare presidente fino al 2027, mentre molti, moltissimi dei suoi andranno a casa. Quanto ai Républicains che non sono passati con Le Pen, per il secondo turno non hanno dato indicazioni di voto.
Ma quali sono gli scenari? Il grande interrogativo, che tiene col fiato sospeso la Francia, l’Europa e il mondo, è se domenica 7 luglio, alle 8 di sera, Jordan Bardella avrà la maggioranza assoluta di 289 seggi che gli garantirebbe la nomina a primo ministro. Un paio di scenari disegnati dall’analista Gilles Gressani, sentito da Samuele Finetti, vedono i lepenisti fermarsi a pochi metri dal traguardo, con 260-275 seggi, a seconda delle desistenze decise dai loro avversari. Ma c’è un’incognita che può ribaltare tutto.
Decidono gli elettori, non i partiti Non è detto, infatti, che tutti seguano le indicazioni dei politici. In molti casi la desistenza degli elettori non lepenisti potrebbe essere totale: stando a casa. Spiega Gressani: «In caso di sfida tra un candidato lepenista e uno del Fronte popolare il 58% degli elettori centristi che ha votato Ensemble al primo turno non andrebbe alle urne, il 30% voterebbe il Nfp, e il 12% sosterrebbe il RN. E le cifre sono molto simili nel campo degli elettori di sinistra: il 50% sarebbe pronto a disertare le urne pur di non scegliere tra un candidato di Bardella e uno di Macron». Pesa il fatto che «il “fronte repubblicano” non è altro che un’unione tattica, non strategica, con il solo scopo di ostacolare un partito senza offrire prospettive politiche concrete».
E quindi che può succedere? E quindi domenica potrebbe arrivare al potere in Francia una destra che cerca di presentarsi come del tutto affidabile ma che il 67% dei francesi non ha votato al primo turno perché la ritiene ancora non potabile sul piano puramente democratico, in quanto antieuropea, razzista e xenofoba, anche se è riuscita nel capolavoro di apparire meno antisemita della sinistra mélenchoniana. Oppure potrebbe esserci un parlamento bloccato, senza maggioranza politica, con un governo di tecnici che va a cercarsi in voti: anziché la melonizzazione, i francesi avrebbero la draghizzazione. Oppure ancora, il miracolo di Macron: una maggioranza «repubblicana», senza lepenisti e senza mélenchoniani. Ma sarebbe, appunto, un miracolo.
La frattura città-campagna La grande geografa Béatrice Giblin, sentita da Alessandra Coppola, descrive un Paese spaccato, con una parte che si sente abbandonata e che si è gettata su Le Pen: «Resiste all’avanzata solo il cuore della grandi città: Parigi, Tolosa, Bordeaux, Nantes: elettori che hanno studiato, hanno un lavoro stabile e uno stipendio dignitoso». E gli altri? «Fuori dai principali centri urbani la Francia è vasta e non sempre densamente popolata, in alcune zone le cifre sono di 10-40 abitanti per chilometro quadrato. Mantenere i servizi pubblici, l’assistenza medica, l’istruzione in queste circostanze è difficile. Ed è costoso».
Insomma, aggiunge Alessandra: «C’erano una volta campagne popolate, villaggi industriali, agglomerati di lavoratori delle ferrovie lungo binari che restano tra i migliori in Europa, una popolazione rurale e operaia che votava a sinistra contro il potere centrale. Oggi è tutto finito o in dismissione. “Regna un sentimento di abbandono terribile — continua la geografa —: la sensazione che di questa gente rimasta nel nulla non interessi più a nessuno”». Un’analisi profonda, esplicativa, oltre i soliti temi dell’immigrazione e dell’antisemitismo.
E i mercati? Ci si aspettava una reazione turbolenta a un successo lepenista, invece le Borse di Parigi e Milano l’hanno presa piuttosto bene, e lo spread (il differenziale con i titoli decennali tedeschi) è sceso un po’ sia in Francia sia da noi. Federico Fubini individua due possibili spiegazioni. La prima è il sollievo perché «la strada verso un governo del Nfp si fa stretta al punto da diventare quasi impossibile», e dunque «si allontana il rischio di un programma di nazionalizzazioni e aumenti radicali di spesa pubblica e tasse». La seconda è opposta: sollievo perché il RN ha preso meno del previsto e «diventa meno probabile che riesca a governare da solo, mentre potrebbe aver bisogno del sostegno di parte dei più prevedibili Républicains. Né è tramontato lo scenario di un governo di unità nazionale».